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Cronaca

No, non è la Meloni la più dossierata d’Italia: siamo tutti sotto esame, anche Mattarella

Dalla banca dati delle forze dell’ordine alle email più delicate, Equalize e i suoi agenti riscrivono il concetto di privacy, puntando a ricattare politici e dirigenti e persino curiosando tra le email del Presidente della Repubblica

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    No, Giorgia Meloni non è la più dossierata d’Italia. L’inchiesta sull’agenzia Equalize ci svela che siamo tutti quanti “dossierabili”, chi più chi meno. Questo dice l’inchiesta milanese su Equalize, la società che secondo i giudici spiava centinaia di migliaia di italiani. A guidare il gruppo? Enrico Pazzali, manager influente, Carmine Gallo, ex poliziotto dai metodi discutibili, e Nunzio Samuele Calamucci, hacker con trascorsi in Anonymous. Questa “squadra dei sogni” aveva un obiettivo chiaro, come scrive il giudice: «Tenere in pugno il Paese». E come commentano loro stessi: «Dai che freghiamo tutta Italia».

    Equalize, operando dal cuore di Milano, non lasciava nulla al caso: il loro arsenale includeva anche la violazione dell’email del Presidente della Repubblica. Tra i vari atti rubati c’è infatti traccia dell’accesso a un’email di Sergio Mattarella, un fatto che i protagonisti commentano con nonchalance: «Abbiamo culo… quelli che hanno fatto la struttura stanno ancora alla manutenzione. Siamo a posto per altri quattro anni».

    La società spaziava dalle informazioni di banchieri e imprenditori fino ai dossier sui politici in vista, tra cui Letizia Moratti. Alle ultime elezioni regionali lombarde, Pazzali pare abbia ordinato di raccogliere notizie compromettenti sui sostenitori della Moratti per dare una mano ad Attilio Fontana. «Fontana è legatissimo a Pazzali», spiegava Gallo. E l’obiettivo? Più chiaro di così: «Servivano notizie idonee a mettere in cattiva luce la Moratti».

    L’infiltrazione nella banca dati delle forze dell’ordine, la temibile Sdi, è stato il grande colpo di Equalize. Grazie alle capacità informatiche di Calamucci e alla sua schiera di ex collaboratori interni al ministero, il gruppo si è spinto dove neanche i migliori investigatori osavano. «Ottocentomila dati Sdi, c’ho di là», vantava Calamucci in una conversazione intercettata con Gallo. Una mole di dati da far tremare i polsi, nascosta in un hard disk come un tesoro inespugnabile. «Far sparire tutto» è la parola d’ordine, perché «non si sa mai».

    E cosa si trova in questi dossier segreti? C’è di tutto, dal report rapido con informazioni di base al “flag rosso” che segna le notizie più compromettenti, tanto che persino una giudice si sarebbe rivolta a Equalize per dare un’occhiata al conto corrente del marito. «Abbiamo la fortuna di avere clienti top in Italia», diceva Calamucci con tono da capitano d’impresa. Tra i clienti, anche figure in vista come Leonardo Maria Del Vecchio, figlio del fondatore di Luxottica, coinvolto nell’intricato mondo di intercettazioni e false accuse per controllare la vita della ex fidanzata.

    E non finisce qui: le avventure di Equalize coinvolgono pure i dipendenti di Barilla e Erg, spiati e monitorati per volere dei rispettivi responsabili della sicurezza aziendale. «Se ci dicono, fate questa frode per quattro milioni… perché poi devi sparire. Dici, va bene, lo faccio, ma non per trecentomila!» così rifletteva Calamucci sulle sue tariffe, ben consapevole dei rischi, ma attratto dalle cifre che giravano tra i loro clienti di lusso.

    L’agenzia di via Pattari, insomma, non si accontentava di poco: ricatti, violazioni informatiche, e una piattaforma, Beyond, per organizzare e vendere tutto questo come un servizio rispettabile. La privacy? Un dettaglio irrilevante in un’Italia dove tutto è schedato e persino un’email di Mattarella diventa materiale su cui speculare.

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      Italia

      Cinema italiani: fine dei giochi. Delle 2.700 sale ne restano meno di mille

      Dal dopoguerra a oggi le sale cinematografiche sono passate da simbolo della rinascita a scheletri urbani dimenticati. A Roma ne restano solo 60 operative. L’allarme lanciato dal docente Silvano Curcio riapre il dibattito: “Contro l’agonia del cinema, servono i ‘terzi luoghi’ alla francese: spazi polifunzionali con al centro la cultura”.

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        Il cinema italiano sta morendo. E non è solo un modo di dire. Lo dicono i numeri: delle 2.700 sale cinematografiche presenti in Italia fino a pochi decenni fa, oggi ne restano meno di mille. A Roma, città simbolo della settima arte, 102 sale sono state chiuse negli ultimi anni. Spente, murate, dimenticate.

        A rilanciare l’allarme è Silvano Curcio, architetto e docente alla Sapienza, durante l’assemblea pubblica “Terzi Luoghi – Una città che si-cura”, tenutasi nella Basilica di San Saba. L’evento, organizzato dal Comitato Sos Sale, ha riunito decine di associazioni e realtà civiche impegnate nella difesa delle sale storiche romane, minacciate da una proposta di legge regionale che, denunciano i promotori, potrebbe trasformare i vecchi cinema in centri commerciali, alberghi o parcheggi.

        «I dati sono drammatici – ha detto Curcio –. A Roma si è cancellata un’intera geografia culturale. Il cinema non è solo uno spazio, è una memoria collettiva». Una memoria che rischia di scomparire sotto la colata di nuove normative urbanistiche: «A dicembre scorso – racconta l’architetto – ho pubblicato Fantasmi urbani, e lì ho rivelato in anteprima l’esistenza di un progetto di legge regionale approvato in Giunta ad agosto. Me ne parlò un amico che lavora alla Regione: la chiamano ‘Legge Metropolitan’, dal nome dello storico cinema romano di via del Corso».

        Una legge che, se approvata, potrebbe sancire la riconversione definitiva di molti spazi un tempo votati alla cultura. Ma Curcio una proposta ce l’ha. Si chiama “terzo luogo”. Un concetto mutuato dalla Francia e dal mondo anglosassone, ma nato in Italia già negli anni Sessanta: «Non dobbiamo dimenticare che l’idea dei centri culturali polifunzionali è nostra. Solo che altrove l’hanno coltivata, noi l’abbiamo lasciata morire».

        Il modello francese – già sperimentato con successo nelle periferie di Parigi e Lione – prevede strutture ibride, che ospitano cinema, teatri, biblioteche, sale concerti, spazi per bambini, mense per persone in difficoltà, caffetterie, laboratori creativi. Una cultura “a km zero”, che rivitalizza i quartieri e rimette le persone al centro, restituendo dignità agli spazi dismessi.

        Il punto non è solo salvare qualche sala. Il punto è ripensare il ruolo stesso del cinema nella città contemporanea. Non più solo luogo di consumo, ma nodo vitale di una rete culturale diffusa. Una rete che oggi, senza interventi rapidi, rischia di spezzarsi del tutto.

        Il caso romano è emblematico. Il cinema Metropolitan è solo il simbolo più evidente di un declino generalizzato. Dalla periferia al centro storico, gli spazi chiusi superano ormai quelli aperti, e molti si avviano verso un destino già scritto: diventare ristoranti, hotel, garage. Un destino che, secondo Curcio, «non è inevitabile, ma è politicamente scelto».

        Il Comitato Sos Sale chiede un cambio di rotta. E lo fa puntando proprio sui cittadini: «Ogni quartiere ha almeno una sala chiusa. Non sono solo edifici, sono identità», spiegano gli attivisti. Per questo lanciano un appello a istituzioni e amministrazioni: difendere i cinema significa difendere la città.

        Forse la sfida più grande sarà ricostruire l’abitudine collettiva di andare al cinema, nonostante l’onda lunga dello streaming, la pigrizia digitale e la concorrenza di piattaforme sempre più aggressive. Ma la risposta, dice Curcio, non è l’abbandono: «Non possiamo lasciare che lo spazio del cinema diventi un ricordo. Possiamo trasformarlo, ripensarlo, ma deve restare vivo».

        E chissà che, tra i fantasmi delle vecchie insegne al neon e le poltrone impolverate, non si trovi ancora posto per una nuova forma di comunità. Magari in silenzio, al buio, mentre si accende un proiettore.

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          Mondo

          Pena di morte record. I dati drammatici del 2024 e il lento cammino verso l’abolizione

          Nel 2024 le esecuzioni capitali hanno toccato il livello più alto dal 2015, ma cresce anche il numero di Paesi che abbandonano questa pratica crudele e inumana.

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            Nel 2024 il mondo ha assistito a un triste record. Un record da guiness dei primati? Nulla di tutto questo. E’ record per numero di esecuzioni capitali che ha raggiunto il livello più alto dal 2015, con almeno 1.518 persone messe a morte in 15 Paesi. Questo dato, riportato da Amnesty International, evidenzia un aumento del 32% rispetto all’anno precedente. Nonostante il numero di Stati che hanno eseguito condanne a morte sia rimasto il più basso mai registrato per il secondo anno consecutivo, l’incremento delle esecuzioni in alcune regioni ha contribuito a questa drammatica crescita.

            La maggior parte delle esecuzioni si è concentrata in Medio Oriente

            Iran, Iraq e Arabia Saudita hanno rappresentato oltre il 91% delle esecuzioni documentate. L’Iran, in particolare, ha messo a morte almeno 972 persone, un aumento significativo rispetto al 2023. L’Arabia Saudita ha raddoppiato il suo totale annuo, mentre l‘Iraq ha quasi quadruplicato il numero delle esecuzioni. Questi tre Paesi, insieme, hanno totalizzato un impressionante 1.380 esecuzioni. L’Iraq ha quasi quadruplicato il numero delle esecuzioni (da almeno 16 ad almeno 63), l’Arabia Saudita ha raddoppiato il suo totale annuo (da 172 ad almeno 345), mentre l’Iran ha messo a morte 119 persone in più rispetto al 2023 (da almeno 853 ad almeno 972), totalizzando il 64% di tutte le esecuzioni note.

            Il mistero Cina nasconde dati fuori controllo

            La Cina, sebbene i dati ufficiali rimangano segreti, è considerata il principale boia al mondo, con stime che suggeriscono migliaia di esecuzioni. Anche in Corea del Nord e Vietnam, la pena di morte continua a essere ampiamente applicata, ma la mancanza di trasparenza rende difficile ottenere numeri precisi.

            Barlume di speranza ce ne abbiamo?

            Nonostante questi dati allarmanti, il 2024 ha visto anche segnali di speranza. Sempre più Paesi stanno abbandonando la pena di morte, con 113 Stati che l’hanno abolita completamente e 145 che l’hanno eliminata dalla legge o dalla prassi. Inoltre, casi come quello di Hakamada Iwao in Giappone e Rocky Myers negli Stati Uniti dimostrano che la mobilitazione internazionale può fare la differenza. Molte condanne a morte sono state commutate in ergastolo o nella liberazione dei prigionieri. Questo contrasto tra l’aumento delle esecuzioni in alcune regioni e il progresso verso l’abolizione sottolinea la complessità del dibattito globale sulla pena di morte. Mentre alcuni Stati continuano a ricorrere a questa pratica crudele e inumana, la tendenza generale sembra indicare un mondo che si sta gradualmente allontanando da essa.

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              Italia

              «Non ho ancora finito»: Carlo III interrotto alla Camera. Ma poi incanta l’Aula (e va a prendere il gelato)

              Nel suo discorso al Parlamento italiano Re Carlo III parla di Dante, Garibaldi, Falcone, pace e Ucraina. Lo fa in parte in italiano, con ironia e garbo. Ma un fuori programma lo interrompe a metà frase: «La cerimonia è terminata…». Il Re, sorpreso, si gira verso i presidenti delle Camere: «Non ho ancora finito».

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                Nel giorno in cui Carlo III diventa il primo sovrano britannico a parlare davanti al Parlamento italiano, l’Aula di Montecitorio si è lasciata andare a una lunga e calorosa standing ovation. Ma non prima di un piccolo, imbarazzante inciampo del cerimoniale, che ha rischiato di trasformare la solennità istituzionale in sketch da varietà.

                Il re si stava riprendendo dall’applauso tributato al ricordo di Giovanni Falcone – «mia madre fece visita a Capaci poco dopo l’attentato» – quando una voce fuori campo, probabilmente dallo staff della Camera, ha annunciato: «La cerimonia è terminata. I gentili ospiti sono pregati di rimanere seduti». Il sovrano, interdetto, ha abbozzato un sorriso amaro, poi si è rivolto verso Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa: «Non ho ancora finito…». Solo dopo quel richiamo ha potuto concludere il suo discorso, che si chiude con una citazione dantesca: «E poi uscimmo a riveder le stelle».

                Un epilogo inusuale per un intervento che, in realtà, aveva tutto il respiro e il tono di un discorso storico. È la prima volta che un monarca britannico prende la parola davanti alle Camere riunite in seduta solenne. E Carlo III lo fa alternando italiano e inglese, ironia e ricordi, riferimenti letterari e geopolitici, senza mai perdere l’equilibrio. «Spero di non stare rovinando la lingua di Dante così tanto da non essere più invitato in Italia», scherza all’inizio. E ancora: «Oggi è un momento speciale, cade anche il nostro ventesimo anniversario di matrimonio». Camilla, in platea, sorride complice.

                Nel cuore del discorso, c’è spazio per molto. La storia condivisa tra Regno Unito e Italia («un terzo delle opere di Shakespeare è ambientato qui», ricorda), la cultura («abbiamo beneficiato enormemente della vostra influenza, anche se ogni tanto corrompiamo la vostra meravigliosa cucina»), l’ambiente e, inevitabilmente, la guerra in Ucraina.

                «Gran Bretagna e Italia sono unite nella difesa dei valori democratici. I nostri Paesi sono stati entrambi al fianco dell’Ucraina nel momento del bisogno. Le nostre forze armate operano insieme nella NATO», dice. E aggiunge, con toni che evocano gli echi del passato: «Tra poche settimane celebreremo l’80esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa. Ricorderemo il terribile prezzo della guerra e il prezioso dono della pace. Oggi, purtroppo, l’eco di quei tempi, che speravamo consegnati alla storia, riecheggia nel nostro continente. Le giovani generazioni lo vedono ogni giorno sui tablet: la pace non può mai essere data per scontata».

                Poi la chiusura affettuosa: «L’Italia sarà sempre nel mio cuore, come lo fu per la mia adorata madre». Frase semplice, efficace, accolta da un altro lungo applauso. Ma è forse nel passaggio più leggero che si coglie l’essenza della visita. «Quando Garibaldi venne in Gran Bretagna ci fu una vera e propria Garibaldi-mania. Gli dedicarono persino un biscotto: da noi è il massimo dell’onore», sorride Carlo, guadagnandosi la simpatia dell’Aula.

                Dopo l’incidente della voce fuori campo, il discorso si chiude senza altri intoppi. L’uscita da Montecitorio è invece accompagnata da un fuori programma ben più gradito: re Carlo e la regina Camilla, dopo aver salutato la folla lungo via Uffici del Vicario, deviano verso la gelateria Giolitti. Una breve sosta tra turisti e romani incuriositi, che segna il finale informale di una giornata formale.

                Gelato alla crema? Pistacchio? Poco importa. A colpire è il contrasto tra l’eleganza sobria del sovrano e l’incertezza della macchina protocollare italiana, ancora capace di annunciare la fine della cerimonia… quando il re non ha nemmeno finito di parlare.

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