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Cronaca

Piera Maggio “madre coraggio”: i minori vanno cercati, non dimenticati…

Sono trascorsi 20 anni dalla sparizione di Denise Pipitone, davanti alla propria abitazione a Mazara del Vallo. Un lungo lasso di tempo nel quale la madre Piera ha mostrato una forza fuori dal comune, denunciando anche con veemenza il fallimento dell’umanità dimostrato da molti.

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    Ieri si è celebrata una triste ricorrenza, quella della scomparsa di Denise Pipitone. “20 anni senza di lei e senza giustizia” è la sintesi che la madre dell’allora bimba – Piera Maggio – ha affidato ai social. Rinnovando un messaggio di dolore che purtroppo non l’ha mai abbandonata… e con lei la solidarietà partecipe di tantissimi italiani che si sono interiormente immedesimati in questa tragedia.

    Un caso di mancata giustizia

    “Nel giorno della triste ricorrenza si rinnova più forte il nostro dolore misto alla rabbia per l’insuccesso nel ritrovamento di Denise e per la mancata giustizia!”. Così scrive la Maggio sul proprio profilo social – insieme a Pietro Pulizzi – per l’anniversario della scomparsa di Denise avvenuta il 1° settembre 2004, mentre giocava davanti casa a Mazara del Vallo.

    Tante le cattiverie che i genitori denunciano

    “Dopo vent’anni dal sequestro di nostra figlia – prosegue -, non abbiamo nulla da aggiungere più di quanto non abbiamo già detto in tutti questi anni”. Per i genitori di Denise “questo caso è una delle vergogne italiane: il fallimento assoluto dei poveri d’animo e di senso umano. Non smetteremo mai di chiedere giustizia e verità. Come non dimenticheremo le cattiverie subite: non tutti hanno una coscienza”.

    Cercare, non dimenticare

    Una figura – quella di Denise – che sì è trasformata nella figlia dell’Italia intera. In questi vent’anni sono stati davvero tanti i volti e i nomi che si sono sovrapposti a quello delicato della piccola Denise, immortalata in quella foto che tutti abbiamo imparato a riconoscere. Su questo aspetto dichiara la Maggio: “Di tanto in tanto una segnalazione arriva, ma io non me ne innamoro mai. Non si può pensare che una ragazza qualsiasi possa essere Denise, anche perché non c’è più un viso a cui appigliarsi. Siamo convinti che prima o poi i colpevoli pagheranno per il male procurato, sia una pena terrena che divina. I minori scomparsi vanno cercati, non dimenticati”.

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      Storie vere

      Follie del web: uno youtuber contro la tribù che non vuole essere disturbata

      Mykhailo Polyakov, influencer americano-ucraino, ha tentato l’impresa (illegale) di raggiungere la tribù dei Sentinellesi sull’isola più isolata del mondo. Con sé, come doni, solo una noce di cocco e una lattina di Diet Coke. Ora rischia cinque anni di carcere e – ancora peggio – di passare alla storia come l’ennesimo youtuber pronto a tutto per qualche visualizzazione. Ma cosa è successo davvero? Una inutile “bravata” che poteva trasformarsi in tragedia…

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      Follie del web: uno youtuber contro la tribù che non vuole essere disturbata

        L’isola di North Sentinel, nel Golfo del Bengala, ospita una delle ultime tribù incontattate del pianeta: i Sentinellesi, circa 250-400 individui che vivono senza alcun contatto con la civiltà moderna da decine di migliaia di anni. Nessun turismo, niente missioni umanitarie, zero traffici commerciali. La loro lingua è sconosciuta, il loro stile di vita immutato, e soprattutto il loro sistema immunitario è estremamente fragile: un banale virus influenzale potrebbe decimarli.

        L’influencer che voleva diventare… virale

        Eppure Mykhailo Polyakov, 24 anni, ha pensato bene di mettere piede sull’isola, con la speranza di documentare l’impresa per il suo canale. Una vera e propria violazione della legge indiana, che tutela l’isolamento dei Sentinellesi. Il giovane è sbarcato il 29 marzo sulla spiaggia nord-orientale dell’isola, lasciando una noce di cocco e una lattina di Diet Coke come simbolici doni di pace. Poi, mentre si allontanava con un gommone guidato da GPS, ha fischiato verso la giungla, sperando forse di attrarre l’attenzione. Gli è andata bene: non è stato colpito da frecce, come accaduto a un missionario nel 2018.

        Rischi seri: carcere (e peggio)

        Al suo rientro a Port Blair, capitale delle Andamane, Polyakov è stato arrestato. L’accusa è chiara: violazione dell’ordinanza che vieta l’accesso a North Sentinel. Il processo si terrà il 17 aprile e lo youtuber rischia fino a cinque anni di carcere e una multa salata. Ma il vero pericolo era ben più grave: un contatto diretto avrebbe potuto causare un’epidemia devastante, poiché i Sentinellesi non hanno mai sviluppato difese immunitarie contro virus moderni come influenza o morbillo.

        “Missione social” senza senso

        L’episodio solleva interrogativi urgenti: fin dove può spingersi la logica dei like e delle visualizzazioni? Vale davvero tutto, anche mettere a rischio una cultura millenaria per un video virale? La ONG Survival, che tutela i popoli indigeni, ha definito l’accaduto “una minaccia inaccettabile per la società più fragile del pianeta”. Eppure, storie come questa si ripetono, tra turisti, avventurieri e influencer senza scrupoli.

        Quando l’ignoranza è più letale di una freccia

        Ironia della sorte, i Sentinellesi, armati di archi e silenzio, hanno resistito a tutto tranne che all’arroganza moderna. E Polyakov, con il suo fischietto e il suo cocco, ha dimostrato come l’ignoranza – oggi spesso travestita da “contenuto” – possa essere l’arma più pericolosa di tutte.

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          Storie vere

          Fuga degli infermieri. Quella di Antonio Torella non sarà l’ultimo caso visto il divario tra Italia e Inghilterra

          Stipendi bassi e scarsa valorizzazione delle competenze spingono gli infermieri italiani all’estero. La storia di Antonio evidenzia una crisi che minaccia il sistema sanitario.

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            Molti di voi si chiederanno: ma chi è Antonio Torella? Semplice è operatore del servzio sanitario italiano di 41 anni. La sua stramba storia ci racconta le difficoltà e i sacrifici che molti infermieri italiani affrontano nel panorama lavorativo attuale. Antonio ha lavorato per la Ausl di Bologna dal 2007, ma nel 2015. Poi si è trasferito per un periodo a Brighton, in Inghilterra, attratto da migliori prospettive professionali. E sebbene sia tornato in Italia per amore della moglie e del figlio, ammette che, se ne avesse la possibilità, tornerebbe subito in Inghilterra. E come mai Torella?

            Continue richieste da parte della Gran Bretagna

            Ogni settimana ricevo offerte dall’Inghilterra, pronte a pagarmi 1.500 sterline a settimana grazie alle mie competenze,” spiega Antonio. E non si tratta solo di uno stipendio più elevato. In Inghilterra, i neoassunti portano a casa uno stipendio netto di circa 2.500 euro al mese, con l’aggiunta di corsi di specializzazione e master finanziati. In Italia, invece, un infermiere guadagna circa 1.800 euro lordi mensili lavorando dal lunedì al venerdì, e qualunque formazione aggiuntiva deve essere pagata di tasca propria. Ma non basta.

            A caccia di personale qualificato

            In Inghilterra, la figura dell’infermiere viene storicamente valorizzata,” continua Torella. La ricerca di personale qualificato, come gli infermieri italiani, è volta a mantenere elevati standard, anche nel rapporto infermiere-pazienti. Lì, ogni infermiere segue in media sei pazienti. In Emilia-Romagna, il rapporto sale a uno ogni 7-8 pazienti di giorno, e può arrivare a uno ogni 13-14 durante i turni notturni. Gli ospedali inglesi offrono supporto ai nuovi assunti attraverso intermediari. Per esempio? Per esempio un mese di alloggio gratuito, prestiti a tasso zero per le spese di affitto e programmi di integrazione che includono eventi sociali e corsi formativi. Vi sembra poco?

            E quindi perchè è tornato in Italia Torella? Per amore naturalmente…

            Nonostante queste iniziative, Antonio è tornato in Italia, spinto dall’età, da un contratto stabile e soprattutto dalla famiglia. Tuttavia, molti colleghi reclutati con lui sono rimasti in Inghilterra. “Tornerebbero volentieri se in Italia esistessero due condizioni: stipendi adeguati al costo della vita e una maggiore valorizzazione delle competenze,” sottolinea. Oltre alla retribuzione inadeguata, anche il costo della vita pesa. “Attualmente guadagno meno di quando lavoravo in sala operatoria, nonostante abbia due master, cinque anni di studi universitari e 18 anni di esperienza,” racconta Antonio. Con l’aumento generale dei prezzi, la sua famiglia è costretta a contenere le spese, rinunciando a vacanze dispendiose. Oggi Antonio teme che, senza un’inversione di tendenza, Bologna potrebbe presto perdere molte figure sanitarie. Richiama l’attenzione sulla necessità di politiche mirate: “Servono alloggi per i giovani e incentivi per far tornare chi ha già lasciato il Paese.”

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              Cronaca Nera

              Stasi e la semilibertà, la Procura dice no: “Intervista non autorizzata”. Ma il carcere lo smentisce

              Il tribunale di Sorveglianza di Milano si è riservato la decisione: attesa entro cinque giorni. La difesa: “Nessuna infrazione”. Il carcere di Bollate conferma: l’intervista fu registrata durante un permesso premio e non ha violato le regole. Ma la Procura chiede il rigetto o almeno un rinvio.

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                Un’intervista, un permesso premio e ora un no che rischia di pesare sul percorso di reinserimento di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. La Procura generale di Milano ha espresso parere contrario alla concessione della semilibertà, richiesta dai legali del 41enne e discussa ieri mattina in un’udienza a porte chiuse davanti al tribunale di Sorveglianza.

                Motivo del rigetto? L’intervista rilasciata alla trasmissione “Le Iene” nel marzo scorso, secondo i magistrati non autorizzata. Una circostanza che per la sostituta procuratrice generale Valeria Marino rappresenta una possibile violazione e, di conseguenza, un elemento di ostacolo alla concessione della misura alternativa. In subordine, la Procura ha chiesto un rinvio per effettuare ulteriori accertamenti.

                Peccato che lo stesso carcere di Bollate, attraverso una relazione firmata dal direttore Giorgio Leggieri, abbia precisato che l’intervista è avvenuta durante un permesso premio regolarmente concesso e non ha violato alcuna prescrizione. “Non si sono rilevate infrazioni”, si legge nel documento. E anche la redazione de “Le Iene” ha preso posizione: “Se il direttore dice che non ci sono state infrazioni, ci chiediamo quale regola sia stata infranta”.

                Due versioni a confronto

                Una divergenza che ha creato confusione, anche mediatica. Subito dopo l’udienza, uno dei legali di Stasi, l’avvocato Glauco Gasperini, aveva parlato di un “parere parzialmente positivo” da parte della Procura, un’interpretazione basata – si è poi capito – sulle relazioni favorevoli del carcere. Ma l’ufficialità ha poi detto altro: il parere della Procura è negativo, proprio a causa di quella intervista.

                Il tribunale di Sorveglianza, presieduto dalla giudice Anna Maria Oddone, si è riservato la decisione, attesa entro cinque giorni. Non è la prima volta che il caso Stasi torna sotto i riflettori. Il 41enne è in carcere dal 2015, dopo la condanna definitiva per l’omicidio avvenuto a Garlasco nel 2007, e dal 2023 è stato ammesso al lavoro esterno come contabile.

                Semilibertà, un passo in più

                A differenza della liberazione condizionale, per cui serve l’ammissione di responsabilità, la semilibertà non richiede un “ravvedimento”. E Stasi, anche in interviste recenti, ha ribadito la propria innocenza, facendo riferimento alle nuove indagini su Andrea Sempio, ex amico di Chiara Poggi. Ma al di là delle dichiarazioni, a giocare a suo favore ci sono dieci anni di buona condotta e le relazioni positive di educatori e operatori penitenziari.

                Il passaggio alla semilibertà gli consentirebbe una permanenza più ampia all’esterno del carcere, non limitata al solo orario lavorativo. Un percorso di graduale ritorno alla vita civile, come previsto dalla normativa, che però ora si complica per un’intervista che – almeno secondo il carcere – non ha mai violato le regole.

                Un futuro segnato dal tempo

                A Stasi restano da scontare poco più di quattro anni, e tenendo conto dei benefici di legge (45 giorni di sconto ogni sei mesi), il fine pena potrebbe arrivare tra il 2028 e il 2029. Entro quel termine, potrebbe chiedere anche l’affidamento in prova, misura alternativa che prevede il reinserimento totale con obblighi specifici e lavori socialmente utili.

                Ma intanto il suo presente si decide a palazzo di giustizia, piano terra, davanti a un’aula chiusa al pubblico ma piena di telecamere fuori dalla porta. Stasi non c’era, per scelta e per rispetto – ha fatto sapere il suo legale – ma il suo volto è tornato ovunque. Un nome che continua a dividere, e che continua a far discutere. Anche quando, almeno formalmente, ha rispettato le regole.

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