Politica
Audizione dell’AD di Ferrovie dello Stato Donnarumma: investimenti, ritardi e privatizzazione al centro del dibattito
Investimenti per 100 miliardi, ritardi, sicurezza e il nodo privatizzazione: l’AD di Ferrovie dello Stato Donnarumma risponde alle criticità sollevate in Commissione Trasporti, ma restano dubbi su fondi, tempistiche e il futuro del servizio pubblico.

L’attesa audizione dell’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Stefano Donnarumma, davanti alla Commissione Trasporti si è rivelata un appuntamento cruciale per fare il punto sulle strategie future del gruppo. Al centro della discussione, temi chiave come il piano di investimenti da 100 miliardi per i prossimi cinque anni, le criticità legate al PNRR, il rischio di privatizzazione e i disagi per i viaggiatori, con particolare attenzione ai ritardi e alla sicurezza. Un confronto serrato, durante il quale Donnarumma ha fornito rassicurazioni su alcuni fronti, lasciando però aperti diversi interrogativi. Ne abbiamo parlato con l’onorevole Traversi, che ha seguito da vicino i lavori della Commissione.
𝐎𝐧. 𝐓𝐫𝐚𝐯𝐞𝐫𝐬𝐢, 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐭𝐭𝐢𝐦𝐚𝐧𝐚 𝐬𝐢 𝐞̀ 𝐬𝐯𝐨𝐥𝐭𝐚 𝐥𝐚 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐚𝐭𝐭𝐞𝐬𝐚 𝐚𝐮𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐀𝐃 𝐝𝐢 𝐅𝐞𝐫𝐫𝐨𝐯𝐢𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐒𝐭𝐚𝐭𝐨, 𝐒𝐭𝐞𝐟𝐚𝐧𝐨 𝐃𝐨𝐧𝐧𝐚𝐫𝐮𝐦𝐦𝐚, 𝐢𝐧 𝐂𝐨𝐦𝐦𝐢𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐓𝐫𝐚𝐬𝐩𝐨𝐫𝐭𝐢. 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐞̀ 𝐞𝐦𝐞𝐫𝐬𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨?
Sono stati affrontati diversi temi. L’audizione, fortemente richiesta dalla Commissione, viste anche le criticità che tutti stiamo riscontrando, si è articolata in due parti: inizialmente, Donnarumma ha illustrato le linee di indirizzo strategico del gruppo, presentando dati, numeri e prospettive; successivamente, i membri della Commissione hanno avuto modo di porre domande specifiche.
𝐂𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐞̀ 𝐞𝐦𝐞𝐫𝐬𝐨?
Uno degli argomenti centrali è stato il piano di investimenti di Ferrovie dello Stato per i prossimi cinque anni, pari a circa 100 miliardi di euro tra il 2025 e il 2029. Di questi, oltre il 60% sarà destinato alla rete ferroviaria, con una suddivisione tra manutenzione straordinaria e nuove infrastrutture, sia tratte per i pendolari che per l’alta velocità.
𝐈𝐧 𝐭𝐞𝐦𝐚 𝐝𝐢 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐬𝐭𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐬𝐢 𝐞̀ 𝐭𝐨𝐜𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐏𝐍𝐑𝐑. 𝐐𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐥’𝐢𝐦𝐩𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐥𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐩𝐞𝐫 𝐢𝐥 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐥𝐞𝐭𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐢?
Donnarumma ha dichiarato che, dei 25 miliardi di euro assegnati alle ferrovie, ne sono stati spesi 12. Ha voluto sottolineare che i fondi del PNRR si possono utilizzare solo per lo sviluppo di nuove infrastrutture e non per l’ammodernamento dell’esistente. Secondo l’AD, i cantieri non stanno interferendo sulle linee attualmente in esercizio, perché riguardano principalmente nuove tratte o potenziamenti. Solo in fase di collaudo potrebbero verificarsi alcuni disagi. Tuttavia, pur volendo centrare tutti gli obiettivi del PNRR, è chiaro che esistano delle criticità che potrebbero impedire la conclusione dei lavori entro giugno 2026. Parliamo dei 13 miliardi ancora da investire. L’AD ha dichiarato che sono in corso delle riformulazioni di negoziazione con il governo, e quindi con la comunità europea.
𝐔𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐢 𝐭𝐞𝐦𝐢 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐝𝐢𝐛𝐚𝐭𝐭𝐮𝐭𝐢, 𝐞 𝐬𝐮𝐥 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐢𝐥 𝐌𝟓𝐒 𝐡𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐨 𝐦𝐚𝐬𝐬𝐢𝐦𝐚 𝐚𝐭𝐭𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞, 𝐞̀ 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐚𝐥𝐥’𝐢𝐩𝐨𝐭𝐞𝐬𝐢 𝐝𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐯𝐚𝐭𝐢𝐳𝐳𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐞𝐫𝐫𝐨𝐯𝐢𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐒𝐭𝐚𝐭𝐨.
Esatto: il M5S è contrario alla privatizzazione, perché storicamente tali operazioni non hanno mai portato benefici, e il timore è quello di svendere parti della rete a fondi privati per coprire il debito pubblico. Ciò avrebbe ripercussioni dirette sugli utenti, con un inevitabile aumento dei costi dei servizi. Donnarumma ha assicurato che non sono previste privatizzazioni né quotazioni in borsa, ma che si stanno valutando con il MEF modelli alternativi di finanziamento, tra cui l’utilizzo di fondi infrastrutturali italiani per sostenere gli investimenti, mantenendo comunque il controllo pubblico. Ha specificato che l’obiettivo non è sostituire l’investimento pubblico, ma di integrarlo. Stridono, però, le sue parole, rispetto all’apertura a capitali privati dichiarata dal ministro Salvini non più di due settimane fa, oltre che da quanto emerso anche da indiscrezioni giornalistiche. Questo è chiaramente un tema molto delicato, su cui non abbasseremo la guardia.
𝐒𝐢 𝐞̀ 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐭𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐫𝐢𝐭𝐚𝐫𝐝𝐢. 𝐐𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐥𝐚 𝐬𝐢𝐭𝐮𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞?
Abbiamo evidenziato il problema, dovuto, secondo noi, ad una mancata programmazione dei lavori sull’infrastruttura, che ha causato blocchi, ritardi e disagi vari. Donnarumma ha riconosciuto che la densità di cantieri ha creato problemi di congestione, aggravati dalla carenza di manodopera e dall’aumento dei costi. Dalla sua informativa, però, è anche emerso che, a fronte di 9.000/10.000 convogli al giorno, nel mese di gennaio la puntualità è stata del 90% per i treni regionali (entro i 5 minuti di ritardo) e dell’80% per l’alta velocità (entro i 10 minuti di ritardo). Tuttavia, la percezione di pendolari, studenti e turisti spesso non corrisponde a questi dati, e quotidianamente vengono segnalati disservizi. L’AD ha ammesso che la comunicazione sui cantieri dell’estate scorsa è stata insufficiente e per questo sta pianificando una campagna di informazione per aggiornare i cittadini cantiere per cantiere e tratta per tratta sui possibili disagi e sulle modifiche alla circolazione.
𝐒𝐢 𝐞̀ 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐮𝐬𝐬𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢 𝐧𝐨𝐦𝐢𝐧𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐞, 𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐨 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐩𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐒𝐭𝐫𝐢𝐬𝐜𝐢𝐮𝐠𝐥𝐢𝐨.
Sì, il trasferimento di Strisciuglio da RFI a Trenitalia, auspicato da Salvini, solleva dubbi di conformità alla normativa europea. Donnarumma ha dichiarato che le procedure sono state rispettate, ma le perplessità rimangono. La documentazione relativa al rinnovo del CdA di FS, infatti, è attualmente al MEF, che la sta valutando.
𝐀𝐥𝐭𝐫𝐨 𝐭𝐞𝐦𝐚 𝐜𝐫𝐮𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐞̀ 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐢𝐜𝐮𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐞 𝐬𝐮𝐢 𝐭𝐫𝐞𝐧𝐢. 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐞̀ 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐭𝐨?
In Commissione sono stati segnalati oltre 800 episodi di furti e violenze. Donnarumma ha riconosciuto il problema, definendolo “un suo cruccio”, e ha riferito di accordi sindacali in corso e di un protocollo con il Ministero degli Interni e con la Polfer, che avrebbe messo a disposizione 400 unità aggiuntive sul 2025, oltre ai 1200 addetti alla sicurezza già operativi.
𝐒𝐢 𝐞̀ 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐭𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢 𝐞𝐟𝐟𝐢𝐜𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐞𝐧𝐞𝐫𝐠𝐞𝐭𝐢𝐜𝐨?
Sì, è stato affrontato il tema del recupero dell’energia elettrica generata dalle frenate e dell’aumento dell’utilizzo di energia rinnovabile, in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione del trasporto ferroviario. A questo aggiungo che, proprio pochi giorni fa, abbiamo letto sui quotidiani dei treni ad idrogeno, che dovrebbero entrare a regime entro l’inizio del 2026. Si tratta di una tecnologia che consente l’utilizzo dell’idrogeno per generare elettricità, evitando l’emissione diretta di CO₂: sembrerebbe la soluzione più efficace per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette al 2040.
𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐞𝐢 𝐞̀ 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐞𝐬𝐚𝐮𝐬𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐥’𝐢𝐧𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐀𝐃 𝐃𝐨𝐧𝐧𝐚𝐫𝐮𝐦𝐦𝐚?
Diciamo che il tempo a disposizione non è stato molto, considerando la complessità dei temi trattati. Non sono state fornite risposte al rimborso automatico per i ritardi sull’Alta Velocità, come siamo rimasti un po’ perplessi sulle slide del piano strategico, rispetto alla possibilità di poterlo visionare nella sua interezza. A tal proposito, Donnarumma si è impegnato ad inviare delle note scritte più dettagliate sui piani di investimento, regione per regione, incluso il Terzo Valico, la relativa copertura finanziaria e il trasporto merci su rete ferrata. Per quanto riguarda, invece, la possibilità di poter acquisire il piano strategico, l’AD ha dichiarato che, trattandosi di un documento gestionale, non è previsto che venga presentato in Parlamento. Detto questo, si è comunque impegnato a fornire una versione più dettagliata in modo da permettere ai commissari di poterlo approfondire. Torniamo a parlare del raddoppio della #Pontremolese, un’opera per la quale mi sono impegnato a lungo, soprattutto quando ero Sottosegretario al Mit durante il Conte 2. Con il #DecretoRilancio del 2020, infatti, abbiamo stanziato e previsto fondi fino al 2032, in particolare per la tratta Parma-Vicofertile. Abbiamo interloquito più volte con la Prefettura di Parma e con il commissario straordinario Cocchetti e, grazie anche al lavoro del collega Davide Zanichelli, abbiamo incrementato i fondi per la realizzazione dell’opera, raggiungendo la cifra di 360 milioni di euro.
Ma, e arriviamo al punto, da quando al governo c’è la destra è tutto fermo!
E’ notizia di pochi giorni fa che il Viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Edoardo Rixi ha “confermato” che per quest’opera strategica il Governo non ha più investito un euro. E che dobbiamo attendere la fine del Pnrr che, però, poco ha a che fare con la Pontremolese, trattandosi di un investimento precedente. In questo senso, possiamo affermare che il Governo ha mantenuto le promesse! Già alla fine del 2023 aveva ribadito che non erano previsti ulteriori investimenti, atteggiamento confermato, proprio nei giorni scorsi, dall’assenza di Regione Liguria ad un importante incontro con Toscana ed Emilia-Romagna sul tema, dove il Presidente Bucci ha disertato il tavolo.
Stiamo parlando di un’opera che non solo favorirebbe il #trasportomerci dal porto di La Spezia al Parmense – incentivando il traffico su rotaia e la #sostenibilitàambientale – ma che rappresenterebbe anche una #lineapasseggeri fondamentale per le comunità dell’Appennino e i pendolari delle due vallate.
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Politica
Esami la domenica e 110 e lode: la laurea record della ministra Calderone finisce in Procura
Esami di domenica, nessuna traccia della triennale, una cattedra mentre era ancora studentessa: il caso della ministra Calderone si ingrossa. Il governo tace, l’università cancella le prove dal web e ora tocca alla magistratura. Perché “l’etica pubblica non può restare fuori dall’aula”.

Esami di domenica, promozioni-lampo, docenze concesse quando era ancora studentessa e una laurea magistrale ottenuta con 110 e lode pur partendo da una media modesta. Il caso della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone, già definito dallo scoop del Fatto Quotidiano come “la laurea della domenica”, non si sgonfia. Anzi, cresce. E arriva in Procura.
Un esposto alla Procura
A muoversi è stato Saverio Regasto, professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Brescia, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma per chiedere che venga fatta luce sulle modalità con cui la ministra ha conseguito i titoli accademici presso la Link Campus University. Non un attacco politico, ma un’iniziativa “per etica pubblica e a tutela della credibilità del sistema universitario italiano”, come ha spiegato lo stesso docente.
Troppe incongruenze
L’esposto elenca punto per punto le incongruenze emerse finora: l’iscrizione alla laurea magistrale senza traccia della triennale nell’anagrafe ufficiale dei laureati, una serie di esami concentrati anche due al giorno, perfino di domenica, la mancanza di doppie commissioni, come prevede la legge, e una docenza in Relazioni industriali concessa alla ministra mentre era ancora iscritta al corso e presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro.
Il marito nel consiglio
A rendere la vicenda ancora più controversa c’è la posizione del marito della ministra, Rosario De Luca, allora membro del consiglio di amministrazione e docente alla stessa Link Campus. Un incrocio tra potere accademico e incarichi politici che suscita più di un interrogativo: le docenze della ministra e del marito sono state comunicate al Ministero e all’Anvur? Nessuna risposta. Solo silenzio.
Il governo non risponde
A due settimane dall’inchiesta giornalistica, il caso non ha ricevuto chiarimenti ufficiali. Durante il question time del 26 marzo, la ministra Calderone ha letto una dichiarazione scritta in cui ha parlato genericamente di “dossieraggio politico”, senza fornire smentite puntuali o spiegazioni tecniche. E alla richiesta delle opposizioni di un’informativa urgente da parte della ministra dell’Università Anna Maria Bernini, è seguito un balbettante “sono d’accordo con lei”, senza ulteriori approfondimenti.
Link University ha rimosso la pagina
Nel frattempo, la Link Campus University ha rimosso dal proprio sito web le pagine imbarazzanti, compresa una sezione nascosta (“paginasegretadoc”) in cui risultavano docenti sia Marina Calderone che il marito. Anche Wikipedia è stata “ripulita”: la voce che attribuiva alla ministra una laurea a Cagliari, mai confermata, è stata modificata. E della sua controversa carriera universitaria alla Link non si fa più cenno.
Il ministero tace
Silenzio anche da parte degli organi che dovrebbero garantire trasparenza e qualità del sistema universitario: nessuna risposta dal Ministero dell’Università, nessuna nota dall’Anvur o dalla Crui. Eppure due ex rettori e altri testimoni accademici, sentiti dai giornalisti, hanno confermato che le modalità d’esame erano irregolari, con commissioni formate da un solo docente, quando per legge devono essere almeno due. Parole pesanti anche da parte dell’ex rettore Adriano De Maio, che ha dichiarato: “Lì si compravano i titoli di studio”.
Una storia già vista
Il nome della Link Campus University non è nuovo alle cronache. La Procura di Firenze ha aperto da tempo un’inchiesta sulle cosiddette “lauree facili” concesse a membri della Polizia di Stato, in base a una convenzione tra l’ateneo e il sindacato Siulp. I vertici dell’università sono a processo, con sentenza attesa a giugno. Negli stessi anni, anche il Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro – allora guidato da Calderone – aveva siglato una convenzione simile con la Link.
Resta da capire se, e in che misura, la ministra stessa abbia beneficiato di quel meccanismo.
In ballo la figura dell’Università
Il caso, ora al vaglio della magistratura, rischia di travolgere non solo una figura politica di primo piano, ma anche l’immagine stessa dell’università italiana. In un Paese in cui ogni giorno migliaia di studenti si sottopongono a prove regolari, sessioni impegnative e anni di sacrifici, è legittimo chiedere chiarezza su chi sembra aver percorso una scorciatoia.
Il silenzio delle istituzioni, a questo punto, non è più solo imbarazzante. È complice.
Politica
Padre, madre… e figuraccia: la Cassazione sbugiarda il Viminale e Salvini
Una sentenza destinata a far discutere mette fine alla crociata ideologica del Viminale: la carta d’identità deve rispecchiare la realtà familiare. Per i giudici, negare il documento a un bambino solo perché ha due madri è “irragionevole e discriminatorio”. Un colpo alla narrazione salviniana su famiglia e tradizione.

er anni è stato un cavallo di battaglia, un vessillo ideologico, un tema da comizio permanente: “Si dice padre e madre, non genitore 1 e genitore 2!”. Ora la Cassazione ha sfilato di mano quel vessillo a Matteo Salvini — e al suo Viminale versione 2019 — con una sentenza che sa tanto di ceffone istituzionale. Con la decisione n. 9216/2025, la Suprema Corte ha demolito il decreto del Ministero dell’Interno che imponeva l’indicazione rigida di “padre” e “madre” nei documenti d’identità dei minori, rendendo invece legittimo l’uso della dizione neutra “genitore”.
Il caso riguarda una famiglia composta da due madri: una biologica, l’altra adottiva. Dopo anni di tira e molla tra Comune e Prefettura, la carta d’identità del bambino — quella elettronica, utile per viaggiare — era diventata un campo di battaglia burocratico. Il Viminale si opponeva, la Corte d’Appello disapplicava il decreto. E ora arriva il timbro finale della Cassazione, che boccia “i tre motivi di doglianza” del ministero e parla senza mezzi termini di “effetto irragionevole e discriminatorio”.
Una scelta pesante, quella della Corte presieduta da Maria Acierno, che ha ribadito l’ovvio: la carta d’identità serve al minore, non al moralista di turno. E se quel minore ha due madri o due padri, lo Stato ha il dovere di prenderne atto, almeno quando si tratta di rilasciare un documento valido per l’espatrio. Negarglielo sarebbe una punizione ideologica a danno di un bambino. Punto.
Ma il vero bersaglio — nemmeno troppo implicito — è quel decreto del 31 gennaio 2019 partorito in pieno clima “family day” istituzionalizzato, quando al Viminale sedeva un vicepremier che, tra un selfie e un rosario, aveva fatto della “difesa della famiglia tradizionale” una crociata personale. La realtà, però, ha la testardaggine dei fatti: le famiglie esistono, anche se non rientrano negli slogan.
La Cassazione non solo dà ragione alla Corte d’Appello, ma richiama esplicitamente la propria giurisprudenza e la sentenza della Consulta n. 79/2022, che tutela il diritto del minore a costruire legami affettivi e giuridici anche con il genitore non biologico, laddove esista una relazione stabile e riconosciuta. In altre parole: il diritto alla famiglia conta più della forma. E “genitore”, per quanto scomodo a qualcuno, è l’unica parola che oggi possa includere tutte le realtà esistenti senza ferire nessuno.
Un verdetto che pesa, soprattutto perché arriva a poche settimane da un altro passaggio cruciale: la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul riconoscimento della madre “intenzionale” in una coppia omosessuale. Ma intanto, sul tavolo resta questa sonora bocciatura a un pezzo della propaganda salviniana.
Il cortocircuito è evidente: chi voleva usare i documenti per ribadire un modello unico di famiglia, si trova oggi smentito proprio in nome della tutela dei più deboli — i figli — che una volta tanto tornano davvero al centro del diritto, e non della retorica.
Il Viminale potrà ancora provare a difendere il proprio decreto? Forse. Ma intanto resta il fatto che l’Italia, nei suoi palazzi più alti, ha cominciato ad accettare una verità che da tempo la società civile già conosceva: le famiglie non si costruiscono coi timbri, ma con l’amore. E no, questa volta nemmeno un selfie potrà cambiare le cose.
Politica
Scivoloni alcolici e frecciate tra ministri: Lollobrigida accusa Salvini di aver rovinato il Natale (del vino)
Francesco Lollobrigida difende il vino italiano da dazi, etichette allarmistiche e ricerche fuorvianti. Ma nella sua crociata contro chi lo demonizza, ne ha anche per il collega Salvini, colpevole di aver votato la stretta natalizia alla guida: “Allarmismo ingiustificato, non si cambia cultura con la paura”.

Altro che brindisi natalizi. A scatenare lo scontro nel governo è stato il vino. Anzi, la sua difesa a spada tratta. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, durante un’intervista a margine del Vinitaly, si è tolto qualche sassolino dal calice puntando il dito — senza troppi giri di parole — contro il nuovo Codice della strada voluto dalla Lega: «È stato un errore approvarlo proprio sotto Natale, periodo in cui si consuma più vino. Ha generato una psicosi collettiva, senza nemmeno modificare i limiti alcolemici. Il risultato? Calo netto degli ordini nei ristoranti. Altro che sicurezza: così si affossa un settore».
Una bordata diretta al ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che a dicembre aveva promosso il decreto come una svolta culturale. Ma per Lollobrigida, la svolta c’è stata sì, ma verso il panico: «La gente non ha capito cosa cambia, si è spaventata. E quando si comunica male, il danno lo fanno le percezioni, non le norme».
Ma il “cognato d’Italia” (come amano chiamarlo certi cronisti maliziosi) non si ferma alla polemica interna. Il suo bersaglio più ampio è l’intera narrazione, secondo lui, “distorta” sul consumo del vino: «Mi hanno attaccato per aver detto che anche l’acqua fa male se consumata in eccesso. Era un paradosso, certo. Ma fa più male una ricerca manipolata per orientare i consumatori che una metafora sbagliata».
Lollobrigida invoca etichette più trasparenti, QR code che informino ma non demonizzino, strumenti che distinguano l’abuso dal consumo responsabile. E se la prende anche con il Nutriscore: «Non è informazione, è condizionamento. E il vino, come l’olio extravergine, va spiegato meglio, non sminuito».
E proprio sull’olio arriva un’altra provocazione: «Una bottiglia da 30 euro è davvero extravergine. Quella da 3, no. A 5 euro stai comprando un prodotto che non ti fa male, ma che non è ciò che pensi. Bisogna dirlo chiaramente». Nel suo ufficio, accanto a documenti e incartamenti, Lollobrigida tiene in bella vista una bottiglia di Gallo Nero extravergine Dop. Più che un vezzo, una dichiarazione d’intenti.
Tra gli altri nodi del comparto c’è anche la minaccia dei dazi americani, che rischiano di colpire i vini italiani di fascia alta. Ma il ministro si dice fiducioso: «L’americano che vuole il Barolo continuerà a comprarlo. Semmai il problema sarà capire chi assorbirà gli aumenti: distributori, importatori, produttori o consumatori? Per ora, abbiamo assistito solo a una corsa agli stock negli Stati Uniti».
E se sugli alcol free il ministro si era detto scettico in passato, oggi modera i toni: «A livello di gusto c’è ancora da lavorare, ma esiste un mercato. In Italia rappresentano meno dell’1%, ma in futuro cresceranno. Con la regolamentazione attuale abbiamo evitato che finissero nello stesso calderone dei vini Doc».
Sostegno convinto anche ai vitigni resistenti (i cosiddetti Piwi) e alle Tea, le tecniche di evoluzione assistita: «Non sono Ogm. Sono accelerazioni di processi naturali che la natura farebbe da sola in cento anni. Siamo vicini a un accordo europeo, l’Italia è all’avanguardia. E non ci faremo fermare da qualche vandalo da tastiera».
Infine, una difesa che sa anche di educazione culturale: «Il vino non è una droga, non è un superalcolico da 60 gradi. È parte della dieta mediterranea, della nostra storia, della nostra identità. Non dobbiamo incentivare a bere di più, ma a bere meglio. Bere qualità, e pagarla il giusto».
Insomma, altro che brindisi bipartisan. Sul vino, nel governo, è già guerra di etichette.
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