Connect with us

Politica

Caso Santanchè: Ki Group Holding sull’orlo del fallimento, debiti e indagini travolgono il “gioiellino bio”

Dopo la composizione negoziata fallita, gli avvocati che assistono Ki Group Holding spa rinunciano all’incarico, lasciando l’azienda bio sempre più vicina alla liquidazione giudiziale. L’Agenzia delle entrate presenta istanza per il fallimento, mentre la Procura di Milano continua a indagare sulla gestione della ministra Santanchè e dell’ex compagno.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Nuovi guai per Daniela Santanché. Dopo il collasso di Ki Group srl e Biofood, ora anche Ki Group Holding spa – la società che fino alla fine del 2021 è stata nelle mani della ministra del Turismo e del suo ex compagno, l’imprenditore Canio Mazzaro – si trova a un passo dal baratro, con oltre 400 mila euro di debiti verso il Fisco. La situazione, già precaria da tempo, ha spinto l’Agenzia delle entrate a chiedere l’intervento del Tribunale di Milano per avviare la procedura di liquidazione giudiziale. La “rottamazione-quater”, che avrebbe dovuto dare respiro alle casse della società, non ha portato i frutti sperati: anche questa strada è fallita con il mancato pagamento delle rate.

    I pm valutano l’ipotesi di bancarotta

    La Procura di Milano, sotto la guida di Marcello Viola, continua a indagare sul ruolo dell’imprenditrice di Fratelli d’Italia nella gestione della società, il cui declino sembra proprio coincidere con la presenza di Santanchè e Mazzaro. La loro amministrazione, tra mancati pagamenti e tentativi infruttuosi di risanamento, ha trasformato quello che un tempo era considerato un “piccolo gioiellino bio” in un’impresa in perenne crisi. E mentre i pm valutano l’ipotesi di bancarotta – ipotesi esclusa in precedenza per il caso Visibilia, legato invece all’accusa di falso in bilancio – la situazione di Ki Group Holding si fa sempre più critica.

    Il tentativo di risanamento è naufragato

    L’istanza per la liquidazione giudiziale, firmata dall’avvocato Carlo Dall’Asta, è stata depositata martedì. Non è la prima volta che la società tenta di rimanere a galla: già i pm Marina Gravina e Luigi Luzi avevano richiesto il fallimento per l’intero gruppo, ma la Holding era riuscita a ottenere una composizione negoziata della crisi, protetta da misure temporanee. Tuttavia, anche questo tentativo di risanamento è naufragato, e gli avvocati che assistevano la società in sede civile hanno rinunciato all’incarico, lasciando la Ki Group Holding sempre più isolata.

    L’Agenzia delle entrate, che vanta crediti per oltre 414 mila euro, ha tentato di recuperare il proprio credito tramite pignoramenti, senza però ottenere alcun successo. Di fronte a questa situazione disperata, ha deciso di rivolgersi al Tribunale per far dichiarare lo “stato di insolvenza” della società, considerata incapace di onorare le proprie obbligazioni. Come si legge nell’istanza, la decadenza dal beneficio della rateazione e l’esito negativo dei pignoramenti sinora eseguiti sono la prova di un’azienda ormai incapace di risollevarsi.

    L’appuntamento per discutere il destino di Ki Group Holding è fissato per il 14 novembre, data in cui verranno anche esaminate le sorti di Bioera, altra società della galassia bio associata a Santanchè e Mazzaro. La domanda, ormai, sembra essere una sola: ci sarà ancora spazio per un nuovo miracolo finanziario, o assisteremo all’ennesimo epilogo amaro per un’azienda italiana che non è riuscita a mantenere le promesse?

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Politica

      Padre, madre… e figuraccia: la Cassazione sbugiarda il Viminale e Salvini

      Una sentenza destinata a far discutere mette fine alla crociata ideologica del Viminale: la carta d’identità deve rispecchiare la realtà familiare. Per i giudici, negare il documento a un bambino solo perché ha due madri è “irragionevole e discriminatorio”. Un colpo alla narrazione salviniana su famiglia e tradizione.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        er anni è stato un cavallo di battaglia, un vessillo ideologico, un tema da comizio permanente: “Si dice padre e madre, non genitore 1 e genitore 2!”. Ora la Cassazione ha sfilato di mano quel vessillo a Matteo Salvini — e al suo Viminale versione 2019 — con una sentenza che sa tanto di ceffone istituzionale. Con la decisione n. 9216/2025, la Suprema Corte ha demolito il decreto del Ministero dell’Interno che imponeva l’indicazione rigida di “padre” e “madre” nei documenti d’identità dei minori, rendendo invece legittimo l’uso della dizione neutra “genitore”.

        Il caso riguarda una famiglia composta da due madri: una biologica, l’altra adottiva. Dopo anni di tira e molla tra Comune e Prefettura, la carta d’identità del bambino — quella elettronica, utile per viaggiare — era diventata un campo di battaglia burocratico. Il Viminale si opponeva, la Corte d’Appello disapplicava il decreto. E ora arriva il timbro finale della Cassazione, che boccia “i tre motivi di doglianza” del ministero e parla senza mezzi termini di “effetto irragionevole e discriminatorio”.

        Una scelta pesante, quella della Corte presieduta da Maria Acierno, che ha ribadito l’ovvio: la carta d’identità serve al minore, non al moralista di turno. E se quel minore ha due madri o due padri, lo Stato ha il dovere di prenderne atto, almeno quando si tratta di rilasciare un documento valido per l’espatrio. Negarglielo sarebbe una punizione ideologica a danno di un bambino. Punto.

        Ma il vero bersaglio — nemmeno troppo implicito — è quel decreto del 31 gennaio 2019 partorito in pieno clima “family day” istituzionalizzato, quando al Viminale sedeva un vicepremier che, tra un selfie e un rosario, aveva fatto della “difesa della famiglia tradizionale” una crociata personale. La realtà, però, ha la testardaggine dei fatti: le famiglie esistono, anche se non rientrano negli slogan.

        La Cassazione non solo dà ragione alla Corte d’Appello, ma richiama esplicitamente la propria giurisprudenza e la sentenza della Consulta n. 79/2022, che tutela il diritto del minore a costruire legami affettivi e giuridici anche con il genitore non biologico, laddove esista una relazione stabile e riconosciuta. In altre parole: il diritto alla famiglia conta più della forma. E “genitore”, per quanto scomodo a qualcuno, è l’unica parola che oggi possa includere tutte le realtà esistenti senza ferire nessuno.

        Un verdetto che pesa, soprattutto perché arriva a poche settimane da un altro passaggio cruciale: la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul riconoscimento della madre “intenzionale” in una coppia omosessuale. Ma intanto, sul tavolo resta questa sonora bocciatura a un pezzo della propaganda salviniana.

        Il cortocircuito è evidente: chi voleva usare i documenti per ribadire un modello unico di famiglia, si trova oggi smentito proprio in nome della tutela dei più deboli — i figli — che una volta tanto tornano davvero al centro del diritto, e non della retorica.

        Il Viminale potrà ancora provare a difendere il proprio decreto? Forse. Ma intanto resta il fatto che l’Italia, nei suoi palazzi più alti, ha cominciato ad accettare una verità che da tempo la società civile già conosceva: le famiglie non si costruiscono coi timbri, ma con l’amore. E no, questa volta nemmeno un selfie potrà cambiare le cose.

          Continua a leggere

          Politica

          Scivoloni alcolici e frecciate tra ministri: Lollobrigida accusa Salvini di aver rovinato il Natale (del vino)

          Francesco Lollobrigida difende il vino italiano da dazi, etichette allarmistiche e ricerche fuorvianti. Ma nella sua crociata contro chi lo demonizza, ne ha anche per il collega Salvini, colpevole di aver votato la stretta natalizia alla guida: “Allarmismo ingiustificato, non si cambia cultura con la paura”.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

            Altro che brindisi natalizi. A scatenare lo scontro nel governo è stato il vino. Anzi, la sua difesa a spada tratta. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, durante un’intervista a margine del Vinitaly, si è tolto qualche sassolino dal calice puntando il dito — senza troppi giri di parole — contro il nuovo Codice della strada voluto dalla Lega: «È stato un errore approvarlo proprio sotto Natale, periodo in cui si consuma più vino. Ha generato una psicosi collettiva, senza nemmeno modificare i limiti alcolemici. Il risultato? Calo netto degli ordini nei ristoranti. Altro che sicurezza: così si affossa un settore».

            Una bordata diretta al ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che a dicembre aveva promosso il decreto come una svolta culturale. Ma per Lollobrigida, la svolta c’è stata sì, ma verso il panico: «La gente non ha capito cosa cambia, si è spaventata. E quando si comunica male, il danno lo fanno le percezioni, non le norme».

            Ma il “cognato d’Italia” (come amano chiamarlo certi cronisti maliziosi) non si ferma alla polemica interna. Il suo bersaglio più ampio è l’intera narrazione, secondo lui, “distorta” sul consumo del vino: «Mi hanno attaccato per aver detto che anche l’acqua fa male se consumata in eccesso. Era un paradosso, certo. Ma fa più male una ricerca manipolata per orientare i consumatori che una metafora sbagliata».

            Lollobrigida invoca etichette più trasparenti, QR code che informino ma non demonizzino, strumenti che distinguano l’abuso dal consumo responsabile. E se la prende anche con il Nutriscore: «Non è informazione, è condizionamento. E il vino, come l’olio extravergine, va spiegato meglio, non sminuito».

            E proprio sull’olio arriva un’altra provocazione: «Una bottiglia da 30 euro è davvero extravergine. Quella da 3, no. A 5 euro stai comprando un prodotto che non ti fa male, ma che non è ciò che pensi. Bisogna dirlo chiaramente». Nel suo ufficio, accanto a documenti e incartamenti, Lollobrigida tiene in bella vista una bottiglia di Gallo Nero extravergine Dop. Più che un vezzo, una dichiarazione d’intenti.

            Tra gli altri nodi del comparto c’è anche la minaccia dei dazi americani, che rischiano di colpire i vini italiani di fascia alta. Ma il ministro si dice fiducioso: «L’americano che vuole il Barolo continuerà a comprarlo. Semmai il problema sarà capire chi assorbirà gli aumenti: distributori, importatori, produttori o consumatori? Per ora, abbiamo assistito solo a una corsa agli stock negli Stati Uniti».

            E se sugli alcol free il ministro si era detto scettico in passato, oggi modera i toni: «A livello di gusto c’è ancora da lavorare, ma esiste un mercato. In Italia rappresentano meno dell’1%, ma in futuro cresceranno. Con la regolamentazione attuale abbiamo evitato che finissero nello stesso calderone dei vini Doc».

            Sostegno convinto anche ai vitigni resistenti (i cosiddetti Piwi) e alle Tea, le tecniche di evoluzione assistita: «Non sono Ogm. Sono accelerazioni di processi naturali che la natura farebbe da sola in cento anni. Siamo vicini a un accordo europeo, l’Italia è all’avanguardia. E non ci faremo fermare da qualche vandalo da tastiera».

            Infine, una difesa che sa anche di educazione culturale: «Il vino non è una droga, non è un superalcolico da 60 gradi. È parte della dieta mediterranea, della nostra storia, della nostra identità. Non dobbiamo incentivare a bere di più, ma a bere meglio. Bere qualità, e pagarla il giusto».

            Insomma, altro che brindisi bipartisan. Sul vino, nel governo, è già guerra di etichette.

              Continua a leggere

              Politica

              Meloni-Salvini, la resa dei conti: Giorgia minaccia di svuotargli il partito, Matteo fa il bimbominkia della maggioranza

              Dopo l’ennesimo sgarbo sul filo diretto con Trump, Giorgia Meloni perde la pazienza e lancia l’ultimatum a Salvini: “Se continua così, gli svuoto la Lega”. Ma il vicepremier rilancia, tra ripicche e provocazioni da scuola media.

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                Giorgia Meloni ha finito la pazienza. Non con Putin, non con Bruxelles e neppure con Macron, ma con il suo vicepremier Matteo Salvini. Un logoramento silenzioso che adesso diventa guerra aperta. Perché Meloni lo ha detto chiaro ai suoi fedelissimi e il messaggio è già rimbalzato nelle redazioni: “Se dopo il congresso della Lega del 6 aprile non la smette, gli svuoto il partito”.

                Sì, avete letto bene: “gli svuoto il partito”. Altro che diplomazia tra alleati, qui si ragiona a colpi di sprangate politiche. È l’avviso da ultimatum che Giorgia ha consegnato ai suoi, stanca di quello che definiscono il “sabotaggio sistematico” di Salvini. L’irritazione di Palazzo Chigi è ai massimi storici: l’uomo che dovrebbe essere il suo alleato più leale si comporta come uno scolaretto che fa i dispetti alla maestra.

                Matteo, infatti, non fa che infilare bastoni tra le ruote: da Macron all’Ucraina, dai dazi alle intese con Trump, fino al dossier Starlink. L’ultima provocazione è la telefonata a sorpresa con J.D. Vance, braccio destro di Donald Trump. Uno smacco istituzionale per la premier, che nel frattempo sta lavorando al suo viaggio a Washington. Così, mentre Giorgia si prepara per la Casa Bianca, Salvini si accredita di soppiatto come interlocutore privilegiato degli ambienti trumpiani.

                “Non se ne può più”, sospirano a Palazzo Chigi. “O Matteo rientra nei ranghi o lo svuotiamo in Aula e nei territori”. E mentre i colonnelli di FdI pregustano già il colpo basso, Salvini ride sotto i baffi, minimizza e continua a fare capolino in ogni vicolo possibile del centrodestra per mettere Giorgia all’angolo.

                Lo scontro si è consumato anche alla Camera: Galeazzo Bignami, uomo ombra della premier, ha lanciato la frecciatina velenosa a Salvini parlando di “chi baciava la pantofola a Mosca”. Il riferimento era chiaro e il destinatario ha incassato senza fiatare.

                Nel frattempo, la faida è ormai sotto gli occhi di tutti. L’unico a fingere che sia ancora tutto rose e fiori è Salvini stesso: “Guerra con Meloni? Non scherziamo”, dice ai giornalisti. Ma ormai persino tra i meloniani si sente mormorare: “Matteo gliel’ha giurata da quando è uscito quel libro del Fatto che lo ridicolizzava, dando a intendere che dietro ci fosse proprio Giorgia”.

                Così, mentre l’Europa si prepara al caos geopolitico e gli Stati Uniti osservano da lontano, in Italia la politica sembra inchiodata a una lite da cortile, tra sgarbi da bar sport e minacce da film di quartiere. E nel mezzo ci siamo noi, spettatori ormai assuefatti che forse – chissà – un giorno troveranno la forza di chiedere: ma quando la finite?

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù