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Politica

L’ossessione albanese di Giorgia Meloni: quattro viaggi, 6.000 euro e un fallimento annunciato

Doveva essere la grande trovata contro l’immigrazione, è diventata una farsa costosissima: in una settimana, quattro viaggi per rimpatriare un bengalese che voleva tornare a casa.

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    Aveva promesso fermezza, efficienza e costi ridotti. Giorgia Meloni, paladina della “linea dura” contro l’immigrazione irregolare, aveva presentato l’accordo con l’Albania come il fiore all’occhiello della sua politica. Peccato che la realtà, come spesso accade con le crociate propagandistiche, si stia rivelando una tragicommedia fatta di sprechi, caos e figuracce.

    Fahim, 49 anni, venditore di rose bengalese

    Il caso di Fahim, 49 anni, venditore di rose bengalese con qualche piccolo precedente penale, è il simbolo perfetto del fallimento annunciato. Irregolare in Italia, avrebbe potuto essere rimpatriato nel giro di pochi giorni direttamente da Roma. E invece no: nella foga di inaugurare a tutti i costi il costosissimo Cpr albanese di Gjader, Fahim è stato usato come cavia di un’operazione surreale che ha coinvolto lui e una scorta di poliziotti, costretti a fare avanti e indietro tra Italia e Albania per quattro volte in una settimana.

    Una trottola umana che ci è costata, calcoli alla mano, almeno 6.000 euro — e probabilmente anche molto di più — per ottenere il rimpatrio di un uomo che non solo non si opponeva, ma che aveva espresso esplicitamente il desiderio di tornare a casa.

    Una buffonata internazionale

    Sarebbe bastato organizzare un volo da Fiumicino a Dacca, spendendo i circa 2.800 euro che il Viminale stima come costo medio per un rimpatrio. Invece, per alimentare una narrazione, il governo ha preferito inscenare una buffonata internazionale, imbarcando Fahim prima su un volo per Brindisi, poi su una nave per l’Albania, poi di nuovo su un aereo per tornare in Italia, infine rispedirlo finalmente in Bangladesh. In mezzo, tre poliziotti per ogni tratto di viaggio, perché la sicurezza viene prima di tutto — soprattutto quando serve a giustificare un simile scempio di risorse.

    Come se non bastasse, la farsa non si è limitata a Fahim. Nei giorni successivi, altri tre migranti sono stati riportati precipitosamente in Italia da Gjader: due perché ritenuti incompatibili con la detenzione a causa delle loro condizioni psichiche, uno perché nel frattempo aveva chiesto asilo. E i giudici della Corte d’appello di Roma — diversamente dalle promesse muscolari del ministro Piantedosi — hanno stabilito che chi chiede protezione internazionale deve rientrare subito in Italia.

    Così, mentre Giorgia Meloni e il suo governo cercano di vendere agli italiani l’illusione di “controllare le frontiere” a suon di viaggi a vuoto e milioni di euro bruciati, la realtà dei fatti è un via vai tragicomico che ha poco di serio e molto di costosamente inutile.

    Altro che piano Marshall contro i trafficanti di esseri umani: l’accordo con l’Albania sta diventando l’ennesima recita di propaganda, fatta pagare profumatamente ai contribuenti italiani.

    E mentre Fahim è finalmente tornato nella sua Dacca, ringraziando probabilmente la nostra burocrazia delirante, a Roma resta la scena di un governo che, pur di non ammettere il flop, continua a rincorrere una chimera. Al prezzo, come sempre, che paghiamo noi.

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      Politica

      Santanchè, il conto del Twiga pagato da Visibilia: 27 mila euro per cene e serate

      Nel 2014 Visibilia saldò una fattura da quasi 27 mila euro per le consumazioni al Twiga di Flavio Briatore. Tra cene di lusso, discoteca e scorta, emergono nuovi dettagli sul rapporto tra Santanchè e la società quotata.

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        Un’estate all’insegna del lusso, con il conto saldato da Visibilia. È questo uno degli ultimi capitoli della lunga inchiesta sulla gestione dell’azienda da parte di Daniela Santanchè, oggi ministra del Turismo. Secondo quanto ricostruito dal Fatto Quotidiano, nel 2014 Visibilia avrebbe pagato anche le consumazioni personali della Santanchè e dei suoi ospiti presso il Twiga, lo stabilimento balneare di Flavio Briatore a Marina di Pietrasanta.

        La cifra non passa inosservata: 26.900 euro, scontati del 30%, per una stagione di pranzi, cene e serate. Tutto documentato da una mail inviata il 7 ottobre 2014 dall’amministrazione del Twiga agli indirizzi ufficiali di Visibilia, in cui si chiedeva il saldo del conto e si allegava il dettaglio delle consumazioni registrate dal 25 aprile al 21 settembre.

        In quegli stessi mesi, Daniela Santanchè regalava al figlio Lorenzo Mazzaro una villa in Versilia, a pochi minuti d’auto dallo stabilimento. Una coincidenza che oggi si intreccia con il sospetto di una gestione quanto meno spregiudicata delle casse aziendali.

        Nel dettaglio, il resoconto parla chiaro. Tra la ministra, il compagno di allora Alessandro Sallusti e l’amica Patrizia d’Asburgo Lorena, vennero spesi 11.885 euro in ristorazione in 43 giorni, con una media di 276 euro al giorno. Non meno attiva la scorta, che fece registrare consumazioni per 2.987 euro, circa 100 euro al giorno.

        Quanto al giovane Lorenzo, tra pranzi e serate in discoteca, la spesa lievitò ulteriormente: 5.192 euro in pasti distribuiti su 34 giorni (152 euro al giorno) e 6.835 euro in 26 notti di divertimenti, per una media di 263 euro a serata. Il tutto, secondo l’accusa, a carico dei soci di minoranza di Visibilia, chiamati a pagare senza possibilità di intervento o opposizione.

        La storia si aggiunge a una serie di episodi che mettono sotto la lente il rapporto tra Santanchè e Visibilia, società quotata in Borsa che, secondo varie ricostruzioni giornalistiche, sarebbe stata trattata più come un bancomat personale che come un’impresa gestita nell’interesse degli azionisti.

        Già in precedenza erano emersi documenti relativi a spese per lavori nella villa di famiglia, sempre attribuite a Visibilia. Ora, con il conto del Twiga, la vicenda si arricchisce di nuovi particolari che rendono ancora più evidente il conflitto d’interessi: da una parte la Santanchè, allora parlamentare di Forza Italia, dall’altra l’imprenditrice che utilizzava fondi societari per coprire spese private.

        Nonostante le difficoltà finanziarie di Visibilia, la ministra — secondo quanto ricostruito — avrebbe continuato a usare la società per sostenere spese personali elevate, mentre gli altri soci erano costretti a coprire i buchi di bilancio.

        Al momento, Daniela Santanchè respinge ogni addebito, difendendo la propria gestione. Ma il quadro che emerge dagli atti e dalle testimonianze lascia poco spazio ai dubbi: una gestione spregiudicata, in cui la distinzione tra conti aziendali e spese personali sembrava labile, se non del tutto ignorata.

        Nei prossimi mesi potrebbero arrivare ulteriori sviluppi giudiziari, anche in relazione agli accertamenti in corso sulla gestione di Visibilia Editore e Visibilia Concessionaria.
        Intanto resta una fotografia chiara: tra ville in Versilia, cene esclusive e discoteche di lusso, la linea di confine tra affari e piaceri, per la ministra del Turismo, sembra essersi fatta pericolosamente sottile.

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          Politica

          Esami la domenica e 110 e lode: la laurea record della ministra Calderone finisce in Procura

          Esami di domenica, nessuna traccia della triennale, una cattedra mentre era ancora studentessa: il caso della ministra Calderone si ingrossa. Il governo tace, l’università cancella le prove dal web e ora tocca alla magistratura. Perché “l’etica pubblica non può restare fuori dall’aula”.

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            Esami di domenica, promozioni-lampo, docenze concesse quando era ancora studentessa e una laurea magistrale ottenuta con 110 e lode pur partendo da una media modesta. Il caso della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone, già definito dallo scoop del Fatto Quotidiano come “la laurea della domenica”, non si sgonfia. Anzi, cresce. E arriva in Procura.

            Un esposto alla Procura

            A muoversi è stato Saverio Regasto, professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Brescia, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma per chiedere che venga fatta luce sulle modalità con cui la ministra ha conseguito i titoli accademici presso la Link Campus University. Non un attacco politico, ma un’iniziativa “per etica pubblica e a tutela della credibilità del sistema universitario italiano”, come ha spiegato lo stesso docente.

            Troppe incongruenze

            L’esposto elenca punto per punto le incongruenze emerse finora: l’iscrizione alla laurea magistrale senza traccia della triennale nell’anagrafe ufficiale dei laureati, una serie di esami concentrati anche due al giorno, perfino di domenica, la mancanza di doppie commissioni, come prevede la legge, e una docenza in Relazioni industriali concessa alla ministra mentre era ancora iscritta al corso e presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro.

            Il marito nel consiglio

            A rendere la vicenda ancora più controversa c’è la posizione del marito della ministra, Rosario De Luca, allora membro del consiglio di amministrazione e docente alla stessa Link Campus. Un incrocio tra potere accademico e incarichi politici che suscita più di un interrogativo: le docenze della ministra e del marito sono state comunicate al Ministero e all’Anvur? Nessuna risposta. Solo silenzio.

            Il governo non risponde

            A due settimane dall’inchiesta giornalistica, il caso non ha ricevuto chiarimenti ufficiali. Durante il question time del 26 marzo, la ministra Calderone ha letto una dichiarazione scritta in cui ha parlato genericamente di “dossieraggio politico”, senza fornire smentite puntuali o spiegazioni tecniche. E alla richiesta delle opposizioni di un’informativa urgente da parte della ministra dell’Università Anna Maria Bernini, è seguito un balbettante “sono d’accordo con lei”, senza ulteriori approfondimenti.

            Link University ha rimosso la pagina

            Nel frattempo, la Link Campus University ha rimosso dal proprio sito web le pagine imbarazzanti, compresa una sezione nascosta (“paginasegretadoc”) in cui risultavano docenti sia Marina Calderone che il marito. Anche Wikipedia è stata “ripulita”: la voce che attribuiva alla ministra una laurea a Cagliari, mai confermata, è stata modificata. E della sua controversa carriera universitaria alla Link non si fa più cenno.

            Il ministero tace

            Silenzio anche da parte degli organi che dovrebbero garantire trasparenza e qualità del sistema universitario: nessuna risposta dal Ministero dell’Università, nessuna nota dall’Anvur o dalla Crui. Eppure due ex rettori e altri testimoni accademici, sentiti dai giornalisti, hanno confermato che le modalità d’esame erano irregolari, con commissioni formate da un solo docente, quando per legge devono essere almeno due. Parole pesanti anche da parte dell’ex rettore Adriano De Maio, che ha dichiarato: “Lì si compravano i titoli di studio”.

            Una storia già vista

            Il nome della Link Campus University non è nuovo alle cronache. La Procura di Firenze ha aperto da tempo un’inchiesta sulle cosiddette “lauree facili” concesse a membri della Polizia di Stato, in base a una convenzione tra l’ateneo e il sindacato Siulp. I vertici dell’università sono a processo, con sentenza attesa a giugno. Negli stessi anni, anche il Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro – allora guidato da Calderone – aveva siglato una convenzione simile con la Link.

            Resta da capire se, e in che misura, la ministra stessa abbia beneficiato di quel meccanismo.

            In ballo la figura dell’Università

            Il caso, ora al vaglio della magistratura, rischia di travolgere non solo una figura politica di primo piano, ma anche l’immagine stessa dell’università italiana. In un Paese in cui ogni giorno migliaia di studenti si sottopongono a prove regolari, sessioni impegnative e anni di sacrifici, è legittimo chiedere chiarezza su chi sembra aver percorso una scorciatoia.

            Il silenzio delle istituzioni, a questo punto, non è più solo imbarazzante. È complice.

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              Politica

              Padre, madre… e figuraccia: la Cassazione sbugiarda il Viminale e Salvini

              Una sentenza destinata a far discutere mette fine alla crociata ideologica del Viminale: la carta d’identità deve rispecchiare la realtà familiare. Per i giudici, negare il documento a un bambino solo perché ha due madri è “irragionevole e discriminatorio”. Un colpo alla narrazione salviniana su famiglia e tradizione.

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                er anni è stato un cavallo di battaglia, un vessillo ideologico, un tema da comizio permanente: “Si dice padre e madre, non genitore 1 e genitore 2!”. Ora la Cassazione ha sfilato di mano quel vessillo a Matteo Salvini — e al suo Viminale versione 2019 — con una sentenza che sa tanto di ceffone istituzionale. Con la decisione n. 9216/2025, la Suprema Corte ha demolito il decreto del Ministero dell’Interno che imponeva l’indicazione rigida di “padre” e “madre” nei documenti d’identità dei minori, rendendo invece legittimo l’uso della dizione neutra “genitore”.

                Il caso riguarda una famiglia composta da due madri: una biologica, l’altra adottiva. Dopo anni di tira e molla tra Comune e Prefettura, la carta d’identità del bambino — quella elettronica, utile per viaggiare — era diventata un campo di battaglia burocratico. Il Viminale si opponeva, la Corte d’Appello disapplicava il decreto. E ora arriva il timbro finale della Cassazione, che boccia “i tre motivi di doglianza” del ministero e parla senza mezzi termini di “effetto irragionevole e discriminatorio”.

                Una scelta pesante, quella della Corte presieduta da Maria Acierno, che ha ribadito l’ovvio: la carta d’identità serve al minore, non al moralista di turno. E se quel minore ha due madri o due padri, lo Stato ha il dovere di prenderne atto, almeno quando si tratta di rilasciare un documento valido per l’espatrio. Negarglielo sarebbe una punizione ideologica a danno di un bambino. Punto.

                Ma il vero bersaglio — nemmeno troppo implicito — è quel decreto del 31 gennaio 2019 partorito in pieno clima “family day” istituzionalizzato, quando al Viminale sedeva un vicepremier che, tra un selfie e un rosario, aveva fatto della “difesa della famiglia tradizionale” una crociata personale. La realtà, però, ha la testardaggine dei fatti: le famiglie esistono, anche se non rientrano negli slogan.

                La Cassazione non solo dà ragione alla Corte d’Appello, ma richiama esplicitamente la propria giurisprudenza e la sentenza della Consulta n. 79/2022, che tutela il diritto del minore a costruire legami affettivi e giuridici anche con il genitore non biologico, laddove esista una relazione stabile e riconosciuta. In altre parole: il diritto alla famiglia conta più della forma. E “genitore”, per quanto scomodo a qualcuno, è l’unica parola che oggi possa includere tutte le realtà esistenti senza ferire nessuno.

                Un verdetto che pesa, soprattutto perché arriva a poche settimane da un altro passaggio cruciale: la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul riconoscimento della madre “intenzionale” in una coppia omosessuale. Ma intanto, sul tavolo resta questa sonora bocciatura a un pezzo della propaganda salviniana.

                Il cortocircuito è evidente: chi voleva usare i documenti per ribadire un modello unico di famiglia, si trova oggi smentito proprio in nome della tutela dei più deboli — i figli — che una volta tanto tornano davvero al centro del diritto, e non della retorica.

                Il Viminale potrà ancora provare a difendere il proprio decreto? Forse. Ma intanto resta il fatto che l’Italia, nei suoi palazzi più alti, ha cominciato ad accettare una verità che da tempo la società civile già conosceva: le famiglie non si costruiscono coi timbri, ma con l’amore. E no, questa volta nemmeno un selfie potrà cambiare le cose.

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