Connect with us

Politica

“Meloni, la bugiarda del secolo”: il PD attacca sui social e infiamma lo scontro politico

Il Partito Democratico alza i toni con un post che definisce Giorgia Meloni “la bugiarda del secolo”, accusandola di aver falsato la narrazione sul caso Almasri. Il premier risponde parlando di un mandato di arresto della Corte penale internazionale. Ma il dibattito si accende e la politica italiana si spacca ancora una volta.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Il clima politico in Italia è sempre più rovente. Questa volta a incendiare il dibattito è un post pubblicato sui social dal Partito Democratico, che accusa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni di aver mentito sul caso Almasri, definendola senza mezzi termini “la bugiarda del secolo”. Un attacco frontale che ha subito scatenato polemiche, non solo per il tono utilizzato, ma anche per la grafica scelta dai Dem, che richiama la copertina di M. Il figlio del secolo, il libro di Antonio Scurati su Benito Mussolini.

    L’accusa del PD è chiara: Meloni avrebbe mentito sulle comunicazioni relative all’indagine che la coinvolge, in particolare sulle informazioni ricevute dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Secondo il partito di Elly Schlein, il governo era stato ripetutamente sollecitato sul caso, ma ha cercato di minimizzare la vicenda. La polemica riguarda anche la terminologia usata dalla destra: il governo ha parlato di avviso di garanzia, quando in realtà si trattava di una semplice comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, un atto che non implica automaticamente un’incriminazione formale.

    La risposta del premier non si è fatta attendere. Con un videomessaggio, Meloni ha respinto le accuse, spostando l’attenzione sul contesto internazionale. Ha ricordato che la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti del capo della polizia giudiziaria di Tripoli, proprio mentre l’uomo si trovava in procinto di entrare in Italia, dopo aver trascorso giorni in altri Paesi europei. Secondo Meloni, la tempistica del provvedimento solleva più di un interrogativo e apre scenari complessi sul piano diplomatico.

    Le tensioni in Parlamento sono alle stelle. Matteo Orfini, tra i volti più critici dell’opposizione, ha ribadito che il governo non ha mai chiarito del tutto la propria posizione e che le dichiarazioni di Meloni servono solo a confondere l’opinione pubblica. Il PD, infatti, insiste sul fatto che il caso non sia una “rappresaglia” contro la premier, come insinuato dalla destra, ma un atto dovuto in seguito a un esposto.

    Ma lo scontro non si limita ai contenuti. Anche la forma scelta dal PD per lanciare il suo attacco ha fatto discutere. L’accostamento tra Meloni e Mussolini, per quanto graficamente evocativo, ha sollevato dubbi sull’efficacia della strategia comunicativa Dem. Da destra, si parla di “ossessione antifascista fine a sé stessa”, mentre alcuni osservatori ritengono che si tratti solo di una provocazione studiata per polarizzare il dibattito.

    In un clima già teso, la vicenda si aggiunge a una lunga lista di scontri istituzionali e politici che hanno caratterizzato gli ultimi mesi. Il governo Meloni resiste agli attacchi, ma il PD non sembra intenzionato ad abbassare il tiro. E, ancora una volta, l’Italia si ritrova con una politica sempre più infiammata, dove la dialettica si gioca più sui social che nelle sedi istituzionali.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Politica

      Esami la domenica e 110 e lode: la laurea record della ministra Calderone finisce in Procura

      Esami di domenica, nessuna traccia della triennale, una cattedra mentre era ancora studentessa: il caso della ministra Calderone si ingrossa. Il governo tace, l’università cancella le prove dal web e ora tocca alla magistratura. Perché “l’etica pubblica non può restare fuori dall’aula”.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        Esami di domenica, promozioni-lampo, docenze concesse quando era ancora studentessa e una laurea magistrale ottenuta con 110 e lode pur partendo da una media modesta. Il caso della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone, già definito dallo scoop del Fatto Quotidiano come “la laurea della domenica”, non si sgonfia. Anzi, cresce. E arriva in Procura.

        Un esposto alla Procura

        A muoversi è stato Saverio Regasto, professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Brescia, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma per chiedere che venga fatta luce sulle modalità con cui la ministra ha conseguito i titoli accademici presso la Link Campus University. Non un attacco politico, ma un’iniziativa “per etica pubblica e a tutela della credibilità del sistema universitario italiano”, come ha spiegato lo stesso docente.

        Troppe incongruenze

        L’esposto elenca punto per punto le incongruenze emerse finora: l’iscrizione alla laurea magistrale senza traccia della triennale nell’anagrafe ufficiale dei laureati, una serie di esami concentrati anche due al giorno, perfino di domenica, la mancanza di doppie commissioni, come prevede la legge, e una docenza in Relazioni industriali concessa alla ministra mentre era ancora iscritta al corso e presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro.

        Il marito nel consiglio

        A rendere la vicenda ancora più controversa c’è la posizione del marito della ministra, Rosario De Luca, allora membro del consiglio di amministrazione e docente alla stessa Link Campus. Un incrocio tra potere accademico e incarichi politici che suscita più di un interrogativo: le docenze della ministra e del marito sono state comunicate al Ministero e all’Anvur? Nessuna risposta. Solo silenzio.

        Il governo non risponde

        A due settimane dall’inchiesta giornalistica, il caso non ha ricevuto chiarimenti ufficiali. Durante il question time del 26 marzo, la ministra Calderone ha letto una dichiarazione scritta in cui ha parlato genericamente di “dossieraggio politico”, senza fornire smentite puntuali o spiegazioni tecniche. E alla richiesta delle opposizioni di un’informativa urgente da parte della ministra dell’Università Anna Maria Bernini, è seguito un balbettante “sono d’accordo con lei”, senza ulteriori approfondimenti.

        Link University ha rimosso la pagina

        Nel frattempo, la Link Campus University ha rimosso dal proprio sito web le pagine imbarazzanti, compresa una sezione nascosta (“paginasegretadoc”) in cui risultavano docenti sia Marina Calderone che il marito. Anche Wikipedia è stata “ripulita”: la voce che attribuiva alla ministra una laurea a Cagliari, mai confermata, è stata modificata. E della sua controversa carriera universitaria alla Link non si fa più cenno.

        Il ministero tace

        Silenzio anche da parte degli organi che dovrebbero garantire trasparenza e qualità del sistema universitario: nessuna risposta dal Ministero dell’Università, nessuna nota dall’Anvur o dalla Crui. Eppure due ex rettori e altri testimoni accademici, sentiti dai giornalisti, hanno confermato che le modalità d’esame erano irregolari, con commissioni formate da un solo docente, quando per legge devono essere almeno due. Parole pesanti anche da parte dell’ex rettore Adriano De Maio, che ha dichiarato: “Lì si compravano i titoli di studio”.

        Una storia già vista

        Il nome della Link Campus University non è nuovo alle cronache. La Procura di Firenze ha aperto da tempo un’inchiesta sulle cosiddette “lauree facili” concesse a membri della Polizia di Stato, in base a una convenzione tra l’ateneo e il sindacato Siulp. I vertici dell’università sono a processo, con sentenza attesa a giugno. Negli stessi anni, anche il Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro – allora guidato da Calderone – aveva siglato una convenzione simile con la Link.

        Resta da capire se, e in che misura, la ministra stessa abbia beneficiato di quel meccanismo.

        In ballo la figura dell’Università

        Il caso, ora al vaglio della magistratura, rischia di travolgere non solo una figura politica di primo piano, ma anche l’immagine stessa dell’università italiana. In un Paese in cui ogni giorno migliaia di studenti si sottopongono a prove regolari, sessioni impegnative e anni di sacrifici, è legittimo chiedere chiarezza su chi sembra aver percorso una scorciatoia.

        Il silenzio delle istituzioni, a questo punto, non è più solo imbarazzante. È complice.

          Continua a leggere

          Politica

          Padre, madre… e figuraccia: la Cassazione sbugiarda il Viminale e Salvini

          Una sentenza destinata a far discutere mette fine alla crociata ideologica del Viminale: la carta d’identità deve rispecchiare la realtà familiare. Per i giudici, negare il documento a un bambino solo perché ha due madri è “irragionevole e discriminatorio”. Un colpo alla narrazione salviniana su famiglia e tradizione.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

            er anni è stato un cavallo di battaglia, un vessillo ideologico, un tema da comizio permanente: “Si dice padre e madre, non genitore 1 e genitore 2!”. Ora la Cassazione ha sfilato di mano quel vessillo a Matteo Salvini — e al suo Viminale versione 2019 — con una sentenza che sa tanto di ceffone istituzionale. Con la decisione n. 9216/2025, la Suprema Corte ha demolito il decreto del Ministero dell’Interno che imponeva l’indicazione rigida di “padre” e “madre” nei documenti d’identità dei minori, rendendo invece legittimo l’uso della dizione neutra “genitore”.

            Il caso riguarda una famiglia composta da due madri: una biologica, l’altra adottiva. Dopo anni di tira e molla tra Comune e Prefettura, la carta d’identità del bambino — quella elettronica, utile per viaggiare — era diventata un campo di battaglia burocratico. Il Viminale si opponeva, la Corte d’Appello disapplicava il decreto. E ora arriva il timbro finale della Cassazione, che boccia “i tre motivi di doglianza” del ministero e parla senza mezzi termini di “effetto irragionevole e discriminatorio”.

            Una scelta pesante, quella della Corte presieduta da Maria Acierno, che ha ribadito l’ovvio: la carta d’identità serve al minore, non al moralista di turno. E se quel minore ha due madri o due padri, lo Stato ha il dovere di prenderne atto, almeno quando si tratta di rilasciare un documento valido per l’espatrio. Negarglielo sarebbe una punizione ideologica a danno di un bambino. Punto.

            Ma il vero bersaglio — nemmeno troppo implicito — è quel decreto del 31 gennaio 2019 partorito in pieno clima “family day” istituzionalizzato, quando al Viminale sedeva un vicepremier che, tra un selfie e un rosario, aveva fatto della “difesa della famiglia tradizionale” una crociata personale. La realtà, però, ha la testardaggine dei fatti: le famiglie esistono, anche se non rientrano negli slogan.

            La Cassazione non solo dà ragione alla Corte d’Appello, ma richiama esplicitamente la propria giurisprudenza e la sentenza della Consulta n. 79/2022, che tutela il diritto del minore a costruire legami affettivi e giuridici anche con il genitore non biologico, laddove esista una relazione stabile e riconosciuta. In altre parole: il diritto alla famiglia conta più della forma. E “genitore”, per quanto scomodo a qualcuno, è l’unica parola che oggi possa includere tutte le realtà esistenti senza ferire nessuno.

            Un verdetto che pesa, soprattutto perché arriva a poche settimane da un altro passaggio cruciale: la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul riconoscimento della madre “intenzionale” in una coppia omosessuale. Ma intanto, sul tavolo resta questa sonora bocciatura a un pezzo della propaganda salviniana.

            Il cortocircuito è evidente: chi voleva usare i documenti per ribadire un modello unico di famiglia, si trova oggi smentito proprio in nome della tutela dei più deboli — i figli — che una volta tanto tornano davvero al centro del diritto, e non della retorica.

            Il Viminale potrà ancora provare a difendere il proprio decreto? Forse. Ma intanto resta il fatto che l’Italia, nei suoi palazzi più alti, ha cominciato ad accettare una verità che da tempo la società civile già conosceva: le famiglie non si costruiscono coi timbri, ma con l’amore. E no, questa volta nemmeno un selfie potrà cambiare le cose.

              Continua a leggere

              Politica

              Scivoloni alcolici e frecciate tra ministri: Lollobrigida accusa Salvini di aver rovinato il Natale (del vino)

              Francesco Lollobrigida difende il vino italiano da dazi, etichette allarmistiche e ricerche fuorvianti. Ma nella sua crociata contro chi lo demonizza, ne ha anche per il collega Salvini, colpevole di aver votato la stretta natalizia alla guida: “Allarmismo ingiustificato, non si cambia cultura con la paura”.

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                Altro che brindisi natalizi. A scatenare lo scontro nel governo è stato il vino. Anzi, la sua difesa a spada tratta. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, durante un’intervista a margine del Vinitaly, si è tolto qualche sassolino dal calice puntando il dito — senza troppi giri di parole — contro il nuovo Codice della strada voluto dalla Lega: «È stato un errore approvarlo proprio sotto Natale, periodo in cui si consuma più vino. Ha generato una psicosi collettiva, senza nemmeno modificare i limiti alcolemici. Il risultato? Calo netto degli ordini nei ristoranti. Altro che sicurezza: così si affossa un settore».

                Una bordata diretta al ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che a dicembre aveva promosso il decreto come una svolta culturale. Ma per Lollobrigida, la svolta c’è stata sì, ma verso il panico: «La gente non ha capito cosa cambia, si è spaventata. E quando si comunica male, il danno lo fanno le percezioni, non le norme».

                Ma il “cognato d’Italia” (come amano chiamarlo certi cronisti maliziosi) non si ferma alla polemica interna. Il suo bersaglio più ampio è l’intera narrazione, secondo lui, “distorta” sul consumo del vino: «Mi hanno attaccato per aver detto che anche l’acqua fa male se consumata in eccesso. Era un paradosso, certo. Ma fa più male una ricerca manipolata per orientare i consumatori che una metafora sbagliata».

                Lollobrigida invoca etichette più trasparenti, QR code che informino ma non demonizzino, strumenti che distinguano l’abuso dal consumo responsabile. E se la prende anche con il Nutriscore: «Non è informazione, è condizionamento. E il vino, come l’olio extravergine, va spiegato meglio, non sminuito».

                E proprio sull’olio arriva un’altra provocazione: «Una bottiglia da 30 euro è davvero extravergine. Quella da 3, no. A 5 euro stai comprando un prodotto che non ti fa male, ma che non è ciò che pensi. Bisogna dirlo chiaramente». Nel suo ufficio, accanto a documenti e incartamenti, Lollobrigida tiene in bella vista una bottiglia di Gallo Nero extravergine Dop. Più che un vezzo, una dichiarazione d’intenti.

                Tra gli altri nodi del comparto c’è anche la minaccia dei dazi americani, che rischiano di colpire i vini italiani di fascia alta. Ma il ministro si dice fiducioso: «L’americano che vuole il Barolo continuerà a comprarlo. Semmai il problema sarà capire chi assorbirà gli aumenti: distributori, importatori, produttori o consumatori? Per ora, abbiamo assistito solo a una corsa agli stock negli Stati Uniti».

                E se sugli alcol free il ministro si era detto scettico in passato, oggi modera i toni: «A livello di gusto c’è ancora da lavorare, ma esiste un mercato. In Italia rappresentano meno dell’1%, ma in futuro cresceranno. Con la regolamentazione attuale abbiamo evitato che finissero nello stesso calderone dei vini Doc».

                Sostegno convinto anche ai vitigni resistenti (i cosiddetti Piwi) e alle Tea, le tecniche di evoluzione assistita: «Non sono Ogm. Sono accelerazioni di processi naturali che la natura farebbe da sola in cento anni. Siamo vicini a un accordo europeo, l’Italia è all’avanguardia. E non ci faremo fermare da qualche vandalo da tastiera».

                Infine, una difesa che sa anche di educazione culturale: «Il vino non è una droga, non è un superalcolico da 60 gradi. È parte della dieta mediterranea, della nostra storia, della nostra identità. Non dobbiamo incentivare a bere di più, ma a bere meglio. Bere qualità, e pagarla il giusto».

                Insomma, altro che brindisi bipartisan. Sul vino, nel governo, è già guerra di etichette.

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù