Politica
Non solo Spano: Report e il “secondo caso Boccia”. Giuli in prima fila tra flop e gaffe, ma non è Inter-Juve
Dopo le dimissioni lampo di Francesco Spano, Ranucci annuncia che nella puntata di domenica si parlerà anche della presidenza Giuli al Maxxi, con numeri “memorabili” che faranno sicuramente discutere, soprattutto a Fratelli d’Italia.

Sembra che per Alessandro Giuli, ministro della Cultura, il copione sia sempre lo stesso: prima il caos, poi la difesa a oltranza e, infine, un colpo di scena firmato Report. Sigfrido Ranucci rilancia. E nella prossima puntata del programma, che andrà in onda domenica sera, ci promette un’altra chicca. No, non si tratta della cronaca dell’ultima disfatta della Juventus o di una rivelazione sulla Superlega, ma di qualcosa di molto più succulento: un secondo “caso Boccia” che va al di là di quanto sembrava chiuso dalle dimissioni di Spano e che stavolta andrebbe a tirare in ballo direttamente il ministro Giuli. Perché una sola scivolata, evidentemente, non bastava.
Spano, un capo di gabinetto mordi e fuggi
Cominciamo dalla “ciliegina” che ha fatto esplodere tutto: Francesco Spano. Il brillante ex capo di gabinetto del Ministero della Cultura, scelto con tanto ardore dal nostro amato ministro, è durato ben nove giorni. Un record che forse non verrà superato neanche dagli stagisti estivi. Perché è andato via così di corsa? Dicono che le pressioni di Fratelli d’Italia abbiano giocato un ruolo fondamentale, visto che Spano risultava “troppo vicino” al centrosinistra e alla comunità LGBTQ. Insomma, il classico profilo che ti aspetti di trovare proprio lì, al cuore della cultura italiana. E invece no, perché certi equilibri sono fragili, specialmente quando c’è di mezzo la politica.
Ma attenzione, Ranucci non si prende il merito delle sue dimissioni. Figuriamoci! Secondo lui, Report ha solo “anticipato una parte dell’inchiesta” e tutto si sarebbe svolto in maniera indipendente. Certo, un dettaglio irrilevante, come se quelle rivelazioni non avessero accelerato la sua dipartita. Ma, si sa, in queste situazioni è sempre difficile capire dove finisce l’informazione e inizia l’autodifesa.
Giuli, ovvero il re delle presidenze discutibili
Il vero piatto forte della puntata, però, non sarà Spano. La poltrona che Report vuole puntare è quella di Alessandro Giuli. E qui le domande fioccano: su quali “qualità” è stato nominato ministro? Forse per la sua gestione del Maxxi, il prestigioso Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma? Beh, se i numeri sono un criterio, qualcuno potrebbe avere un sussulto: in un solo anno, Giuli ha visto crollare i biglietti venduti del 30%. Una performance da far invidia alle peggiori crisi d’impresa. Per non parlare delle sponsorizzazioni: dai fasti del milione di euro annuale, si è passati a una misera metà, tanto che qualcuno potrebbe chiedersi se il Maxxi non si sia specializzato in arte del “taglio dei fondi”.
Ma Giuli non si scompone: “I conti si fanno alla fine”. Certo, perché se li facciamo adesso, rischiamo di vedere la cruda realtà. Meglio aspettare e sperare in un miracolo artistico dell’ultimo minuto. Peccato che i numeri siano quelli, e che alla fine, come al solito, saranno i fatti a parlare. Ma chissà, magari ci sorprenderà con un colpo di teatro.
Non è solo una questione di numeri: ecco il secondo caso Boccia
A complicare ulteriormente il quadro, Ranucci ha lasciato intendere che Giuli potrebbe essere coinvolto in un secondo “caso Boccia”. Per chi non lo sapesse, il “caso Boccia” è una sorta di marchio di fabbrica delle inchieste scomode di Report. Questa volta, si parla di ruoli ambigui e responsabilità poco chiare. Non c’è ancora molto di concreto, ma se c’è una cosa che Report sa fare bene è tenere alta la suspense.
E nel frattempo, gli ascoltatori di Radio 1 hanno avuto un assaggio della sua verve quando, ospite di “Un giorno da pecora”, Ranucci ha aggiunto un tocco di calcio alla vicenda. Giuli? “Gli avevo anche consigliato di vedere Inter-Juve”, ha detto il giornalista, per poi correggersi: “Ah no, mi sono sbagliato, in serata c’è Roma-Fiorentina”. Insomma, oltre a fare le pulci a chiunque, Ranucci riesce anche a confondersi sugli orari delle partite. Però sulle inchieste, quello sì, non sbaglia mai.
Fratelli d’Italia in fermento: che farà Giuli?
Con un’ironia pungente, Ranucci lascia intendere che la puntata di domenica potrebbe far tremare qualcuno a Fratelli d’Italia. E come potrebbe non essere così? Il caso Spano è solo la punta dell’iceberg: sembra che dietro le quinte si stia preparando uno spettacolo ben più grande, con il ministro Giuli al centro della scena. Certo, magari sarà solo un breve cameo, ma intanto le domande su di lui crescono. E se c’è una cosa che non piace ai potenti è essere messi sotto i riflettori per le ragioni sbagliate.
Domenica sera, quindi, tenetevi pronti: il caso Spano sarà solo l’antipasto. Giuli e il suo Maxxi saranno il vero spettacolo, con numeri e chat che non fanno certo presagire nulla di buono. E se tutto questo vi sembra solo una mossa per aumentare gli ascolti, beh, sappiate che le migliori sceneggiature sono scritte dalla realtà. Resta da vedere come andrà a finire: ma, come dice Giuli, “i conti si fanno alla fine”. Speriamo che almeno su questo abbia ragione.
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Politica
Padre, madre… e figuraccia: la Cassazione sbugiarda il Viminale e Salvini
Una sentenza destinata a far discutere mette fine alla crociata ideologica del Viminale: la carta d’identità deve rispecchiare la realtà familiare. Per i giudici, negare il documento a un bambino solo perché ha due madri è “irragionevole e discriminatorio”. Un colpo alla narrazione salviniana su famiglia e tradizione.

er anni è stato un cavallo di battaglia, un vessillo ideologico, un tema da comizio permanente: “Si dice padre e madre, non genitore 1 e genitore 2!”. Ora la Cassazione ha sfilato di mano quel vessillo a Matteo Salvini — e al suo Viminale versione 2019 — con una sentenza che sa tanto di ceffone istituzionale. Con la decisione n. 9216/2025, la Suprema Corte ha demolito il decreto del Ministero dell’Interno che imponeva l’indicazione rigida di “padre” e “madre” nei documenti d’identità dei minori, rendendo invece legittimo l’uso della dizione neutra “genitore”.
Il caso riguarda una famiglia composta da due madri: una biologica, l’altra adottiva. Dopo anni di tira e molla tra Comune e Prefettura, la carta d’identità del bambino — quella elettronica, utile per viaggiare — era diventata un campo di battaglia burocratico. Il Viminale si opponeva, la Corte d’Appello disapplicava il decreto. E ora arriva il timbro finale della Cassazione, che boccia “i tre motivi di doglianza” del ministero e parla senza mezzi termini di “effetto irragionevole e discriminatorio”.
Una scelta pesante, quella della Corte presieduta da Maria Acierno, che ha ribadito l’ovvio: la carta d’identità serve al minore, non al moralista di turno. E se quel minore ha due madri o due padri, lo Stato ha il dovere di prenderne atto, almeno quando si tratta di rilasciare un documento valido per l’espatrio. Negarglielo sarebbe una punizione ideologica a danno di un bambino. Punto.
Ma il vero bersaglio — nemmeno troppo implicito — è quel decreto del 31 gennaio 2019 partorito in pieno clima “family day” istituzionalizzato, quando al Viminale sedeva un vicepremier che, tra un selfie e un rosario, aveva fatto della “difesa della famiglia tradizionale” una crociata personale. La realtà, però, ha la testardaggine dei fatti: le famiglie esistono, anche se non rientrano negli slogan.
La Cassazione non solo dà ragione alla Corte d’Appello, ma richiama esplicitamente la propria giurisprudenza e la sentenza della Consulta n. 79/2022, che tutela il diritto del minore a costruire legami affettivi e giuridici anche con il genitore non biologico, laddove esista una relazione stabile e riconosciuta. In altre parole: il diritto alla famiglia conta più della forma. E “genitore”, per quanto scomodo a qualcuno, è l’unica parola che oggi possa includere tutte le realtà esistenti senza ferire nessuno.
Un verdetto che pesa, soprattutto perché arriva a poche settimane da un altro passaggio cruciale: la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul riconoscimento della madre “intenzionale” in una coppia omosessuale. Ma intanto, sul tavolo resta questa sonora bocciatura a un pezzo della propaganda salviniana.
Il cortocircuito è evidente: chi voleva usare i documenti per ribadire un modello unico di famiglia, si trova oggi smentito proprio in nome della tutela dei più deboli — i figli — che una volta tanto tornano davvero al centro del diritto, e non della retorica.
Il Viminale potrà ancora provare a difendere il proprio decreto? Forse. Ma intanto resta il fatto che l’Italia, nei suoi palazzi più alti, ha cominciato ad accettare una verità che da tempo la società civile già conosceva: le famiglie non si costruiscono coi timbri, ma con l’amore. E no, questa volta nemmeno un selfie potrà cambiare le cose.
Politica
Scivoloni alcolici e frecciate tra ministri: Lollobrigida accusa Salvini di aver rovinato il Natale (del vino)
Francesco Lollobrigida difende il vino italiano da dazi, etichette allarmistiche e ricerche fuorvianti. Ma nella sua crociata contro chi lo demonizza, ne ha anche per il collega Salvini, colpevole di aver votato la stretta natalizia alla guida: “Allarmismo ingiustificato, non si cambia cultura con la paura”.

Altro che brindisi natalizi. A scatenare lo scontro nel governo è stato il vino. Anzi, la sua difesa a spada tratta. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, durante un’intervista a margine del Vinitaly, si è tolto qualche sassolino dal calice puntando il dito — senza troppi giri di parole — contro il nuovo Codice della strada voluto dalla Lega: «È stato un errore approvarlo proprio sotto Natale, periodo in cui si consuma più vino. Ha generato una psicosi collettiva, senza nemmeno modificare i limiti alcolemici. Il risultato? Calo netto degli ordini nei ristoranti. Altro che sicurezza: così si affossa un settore».
Una bordata diretta al ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che a dicembre aveva promosso il decreto come una svolta culturale. Ma per Lollobrigida, la svolta c’è stata sì, ma verso il panico: «La gente non ha capito cosa cambia, si è spaventata. E quando si comunica male, il danno lo fanno le percezioni, non le norme».
Ma il “cognato d’Italia” (come amano chiamarlo certi cronisti maliziosi) non si ferma alla polemica interna. Il suo bersaglio più ampio è l’intera narrazione, secondo lui, “distorta” sul consumo del vino: «Mi hanno attaccato per aver detto che anche l’acqua fa male se consumata in eccesso. Era un paradosso, certo. Ma fa più male una ricerca manipolata per orientare i consumatori che una metafora sbagliata».
Lollobrigida invoca etichette più trasparenti, QR code che informino ma non demonizzino, strumenti che distinguano l’abuso dal consumo responsabile. E se la prende anche con il Nutriscore: «Non è informazione, è condizionamento. E il vino, come l’olio extravergine, va spiegato meglio, non sminuito».
E proprio sull’olio arriva un’altra provocazione: «Una bottiglia da 30 euro è davvero extravergine. Quella da 3, no. A 5 euro stai comprando un prodotto che non ti fa male, ma che non è ciò che pensi. Bisogna dirlo chiaramente». Nel suo ufficio, accanto a documenti e incartamenti, Lollobrigida tiene in bella vista una bottiglia di Gallo Nero extravergine Dop. Più che un vezzo, una dichiarazione d’intenti.
Tra gli altri nodi del comparto c’è anche la minaccia dei dazi americani, che rischiano di colpire i vini italiani di fascia alta. Ma il ministro si dice fiducioso: «L’americano che vuole il Barolo continuerà a comprarlo. Semmai il problema sarà capire chi assorbirà gli aumenti: distributori, importatori, produttori o consumatori? Per ora, abbiamo assistito solo a una corsa agli stock negli Stati Uniti».
E se sugli alcol free il ministro si era detto scettico in passato, oggi modera i toni: «A livello di gusto c’è ancora da lavorare, ma esiste un mercato. In Italia rappresentano meno dell’1%, ma in futuro cresceranno. Con la regolamentazione attuale abbiamo evitato che finissero nello stesso calderone dei vini Doc».
Sostegno convinto anche ai vitigni resistenti (i cosiddetti Piwi) e alle Tea, le tecniche di evoluzione assistita: «Non sono Ogm. Sono accelerazioni di processi naturali che la natura farebbe da sola in cento anni. Siamo vicini a un accordo europeo, l’Italia è all’avanguardia. E non ci faremo fermare da qualche vandalo da tastiera».
Infine, una difesa che sa anche di educazione culturale: «Il vino non è una droga, non è un superalcolico da 60 gradi. È parte della dieta mediterranea, della nostra storia, della nostra identità. Non dobbiamo incentivare a bere di più, ma a bere meglio. Bere qualità, e pagarla il giusto».
Insomma, altro che brindisi bipartisan. Sul vino, nel governo, è già guerra di etichette.
Politica
Meloni-Salvini, la resa dei conti: Giorgia minaccia di svuotargli il partito, Matteo fa il bimbominkia della maggioranza
Dopo l’ennesimo sgarbo sul filo diretto con Trump, Giorgia Meloni perde la pazienza e lancia l’ultimatum a Salvini: “Se continua così, gli svuoto la Lega”. Ma il vicepremier rilancia, tra ripicche e provocazioni da scuola media.

Giorgia Meloni ha finito la pazienza. Non con Putin, non con Bruxelles e neppure con Macron, ma con il suo vicepremier Matteo Salvini. Un logoramento silenzioso che adesso diventa guerra aperta. Perché Meloni lo ha detto chiaro ai suoi fedelissimi e il messaggio è già rimbalzato nelle redazioni: “Se dopo il congresso della Lega del 6 aprile non la smette, gli svuoto il partito”.
Sì, avete letto bene: “gli svuoto il partito”. Altro che diplomazia tra alleati, qui si ragiona a colpi di sprangate politiche. È l’avviso da ultimatum che Giorgia ha consegnato ai suoi, stanca di quello che definiscono il “sabotaggio sistematico” di Salvini. L’irritazione di Palazzo Chigi è ai massimi storici: l’uomo che dovrebbe essere il suo alleato più leale si comporta come uno scolaretto che fa i dispetti alla maestra.
Matteo, infatti, non fa che infilare bastoni tra le ruote: da Macron all’Ucraina, dai dazi alle intese con Trump, fino al dossier Starlink. L’ultima provocazione è la telefonata a sorpresa con J.D. Vance, braccio destro di Donald Trump. Uno smacco istituzionale per la premier, che nel frattempo sta lavorando al suo viaggio a Washington. Così, mentre Giorgia si prepara per la Casa Bianca, Salvini si accredita di soppiatto come interlocutore privilegiato degli ambienti trumpiani.
“Non se ne può più”, sospirano a Palazzo Chigi. “O Matteo rientra nei ranghi o lo svuotiamo in Aula e nei territori”. E mentre i colonnelli di FdI pregustano già il colpo basso, Salvini ride sotto i baffi, minimizza e continua a fare capolino in ogni vicolo possibile del centrodestra per mettere Giorgia all’angolo.
Lo scontro si è consumato anche alla Camera: Galeazzo Bignami, uomo ombra della premier, ha lanciato la frecciatina velenosa a Salvini parlando di “chi baciava la pantofola a Mosca”. Il riferimento era chiaro e il destinatario ha incassato senza fiatare.
Nel frattempo, la faida è ormai sotto gli occhi di tutti. L’unico a fingere che sia ancora tutto rose e fiori è Salvini stesso: “Guerra con Meloni? Non scherziamo”, dice ai giornalisti. Ma ormai persino tra i meloniani si sente mormorare: “Matteo gliel’ha giurata da quando è uscito quel libro del Fatto che lo ridicolizzava, dando a intendere che dietro ci fosse proprio Giorgia”.
Così, mentre l’Europa si prepara al caos geopolitico e gli Stati Uniti osservano da lontano, in Italia la politica sembra inchiodata a una lite da cortile, tra sgarbi da bar sport e minacce da film di quartiere. E nel mezzo ci siamo noi, spettatori ormai assuefatti che forse – chissà – un giorno troveranno la forza di chiedere: ma quando la finite?
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