Cronaca
Povera Saman, uccisa dai genitori e tradita dal fidanzato per cui era scappata di casa
“Saman senza alleati: “Tradita dal fidanzato. Pensavano a un figlio, ma poi sentiva un’altra”. Il cuore di Saman Abbas si spegne nell’illusione di un amore tradito, mentre Ayub Saqib, il suo fidanzato, emerge come l’ombra dell’inganno nella sentenza della Corte d’Assise. Tra chat segrete, promesse infrante e tragici silenzi, il destino di Saman si intreccia con la menzogna e il tradimento, portando alla luce una verità tanto sconvolgente quanto dolorosa.”
“Saman senza alleati: “Tradita dal fidanzato. Pensavano a un figlio, ma poi sentiva un’altra”. Saman Abbas avrebbe vissuto con il connazionale pakistano Ayub Saqib solo un’illusione d’amore. L’unico barlume di una persona che fosse davvero legata a lei viene spento dalla Corte d’Assise.
La leggerezza di Saquib
Il progetto di un matrimonio, ed emerge ora, anche quello di un figlio, sarebbero stati presi con molta leggerezza da Saqib, oggi 26enne: alla luce della sua condotta, a lui, costituito parte civile, non è stato riconosciuto alcun risarcimento. Nelle motivazioni della sentenza per l’omicidio della 18enne pakistana, i giudici Cristina Beretti e Michela Caputo analizzano una chat tra Saqib e una seconda ragazza: “È il giorno stesso della scomparsa di Saman che Saqib, evidentemente molto angosciato per le sue sorti – scrivono in modo caustico – avvierà una lunghissima conoscenza via chat con un’altra ragazza, che contattò il primo maggio 2021 su WhatsApp, intrattenendo con lei una conversazione incessante fino al 17 giugno 2021 solo perché quel giorno fu sequestrato il suo telefono”.
Le chat con l’altra
Da questa chat “emerge la scarsissima affezione di Saqib verso Saman, che di lui era tanto innamorata da aver messo tutto a repentaglio. Nei primi giorni il suo atteggiamento, non conoscendo la sorte di Saman, poteva reputarsi sintomatico della scarsissima serietà delle sue intenzioni e di totale mancanza di rispetto: si pensi solo che voleva sposarla e avevano provato ad avere un bambino.
Nessun rispetto per Saman
Nei giorni successivi alla scoperta della tragedia, assume caratteri e significati sui quali si preferisce sorvolare per rispetto alla giovane vittima”. In questo periodo di un mese e mezzo la chat “è composta di quasi cinquemila pagine”. Tra i messaggi che lui invia alla “nuova fiamma”, sempre il primo maggio 2021 se ne trovano alcuni “dal tenore eloquente e analogo a quelli che lui, fino a poche ore prima, inviava a Saman”.
Ti amo, ma non era vero
Nei giorni successivi alla scoperta da parte di Saqib della sparizione di Saman, all’una di notte del 7 maggio ripostò il messaggio “Ti amo vita mia” senza avere risposta, e aggiunse come per sollecitarla: “Una persona che ama poi risponde con tanto amore”. Dal cellulare del giovane emergono poi “informazioni su viaggi a Milano fatti da lui quando Saman era ancora viva e a lei tenuti nascosti, screenshot di contatti con altre giovani e foto scambiate con loro”.
Lui ha chiesto a Saman di tornare a casa
In base alle testimonianze delle assistenti sociali e dell’educatrice della giovane uccisa, è “provato” che “è stato lui ad aver compromesso il percorso di Saman in comunità, determinandola più volte a scappare e fomentando in lei diffidenza e sfiducia verso la struttura e i suoi operatori”. Si rileva che “è lui ad aver mentito a operatrici e assistenti sociali quando, dopo l’ultima fuga della ragazza datata 11 aprile 2021, sarà contattato più volte per avere informazioni su Saman, e lui negò di trovarsi insieme a lei a Roma”. Secondo la Corte “è lui a determinare Saman a fare rientro a casa, per un motivo, questo sì futile, come il recupero dei documenti, peraltro scaduti, stressandola in modo incessante”.
Solo mezze verità
Dopo la scomparsa di Saman, “Saqib ha poi atteso cinque giorni prima di rivolgersi ai carabinieri, cui ha raccontato sempre e solo mezze verità”. In un altro passaggio delle motivazioni della sentenza si rimarca che, sulla necessità di accelerare le nozze nonostante l’indisponibilità dei documenti e rischi legati al ritorno di Saman a casa, lui ha detto in udienza che altrimenti “sarebbe andata di nuovo in comunità e poi era difficile”, negando invece “di essere a conoscenza che il matrimonio gli avrebbe permesso di richiedere un permesso di soggiorno”.
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Storie vere
Multa da 200 euro per una birra nei vicoli di Genova: “Aiutatemi a pagarla, offritemi una birretta virtuale!”
Multata di 200 euro per una birra consumata nei vicoli della città della Lanterna, lancia una raccolta fondi sulla piattaforma di crowdfunding GoFundMe.
Genova, centro storico. Laura Capini, genovese doc, è diventata protagonista di una storia che mescola ironia, burocrazia e una richiesta decisamente… social. La signora è stata multata di 200 euro per aver portato con sé una bottiglia di birra nei vicoli del centro storico di Genova. Per fare risaltare l’assurda decisione dei vigili urbani – che comunque hanno seguito l’odinanza approvata dal Comune – ha deciso di lanciare una raccolta fondi su GoFundMe per coprire la “mazzata”. La donazione nel momento in cui scriviamo è arrivata a raccogliere l’88% (220 euro) della cifra richiesta che è di 250 euro totali con 21 donatori.
Chi beve birra campa cent’anni…Meditate gente, meditate…
“Una Moretti in vetro da 66 cl: materiale pericolosissimo, vero arsenale di degrado urbano“, ci scherza sopra la Capini nel suo post, in cui racconta l’accaduto con il suo compagno Massimo. Fermati dalle forze della vigilanza urbana nella notte tra il 16 e il 17 novembre, i due si sono visti sequestrare le birre (una aperta, l’altra intonsa) e recapitare la sanzione di 200 euro. “Me la incornicio questa multa“, ha detto la Capini, passando poi dalle parole ai fatti e pubblicando la foto del verbale come fosse un’opera d’arte moderna. La giovane però non si è fermata all’umorismo. Infatti ha attivato una campagna di crowdfunding, ovvero una raccolta fondi online, invitando chi condivide la sua indignazione a offrirle “una birretta virtuale” per aiutarla a pagare la multa.
Cosa dice l’ordinanza anti-alcol di Genova?
La multa ricevuta da Laura si basa sul regolamento di polizia urbana in vigore nel centro storico, che vieta di detenere bevande alcoliche (e non) in contenitori di vetro o metallo all’aperto, dalle 22:00 alle 6:00. La misura, introdotta per contrastare degrado e microcriminalità, si somma all’ordinanza anti-alcol varata nel 2023 e prorogata fino a settembre del 2025. Questa vieta il consumo di alcolici in aree pubbliche in tutta Genova, a meno che non si trovino in dehors autorizzati o contenitori sigillati. In alcune “zone rosse” come Cornigliano, Sampierdarena e il centro storico, il divieto è persino più stringente, estendendosi dalle 12:00 alle 8:00 del giorno successivo. L’idea è prevenire abusi, ma il regolamento non fa distinzioni: birra o acqua in borraccia, tutto è passibile di sanzione.
Deboli con i forti, forti con i deboli?
Laura non nasconde il suo disappunto. “Le leggi servono, ma possono essere scritte e applicate in modo più sensato. Un paio d’anni fa multarono uno che mangiava in pausa pranzo. Non sarà il caso di rivedere le priorità?“
Cronaca
Trapani, orrore dietro le sbarre: torture e abusi nel carcere Cerulli, 11 arresti e 14 sospensioni
Lanci d’acqua mista a urina, violenze gratuite e detenuti ridotti a oggetti: le parole del procuratore Gabriele Paci gettano luce su una realtà agghiacciante. 46 indagati tra gli agenti penitenziari.
L’orrore del carcere Pietro Cerulli di Trapani si è svelato in tutta la sua crudezza: una sequenza di abusi e violenze che, secondo la procura, andavano ben oltre l’episodico, configurandosi come un metodo sistematico per garantire l’ordine. Undici agenti penitenziari agli arresti domiciliari, quattordici sospesi dal servizio e un totale di 46 indagati. L’accusa è pesante: tortura, abuso d’autorità e falso ideologico.
Le indagini, partite nel 2021 e concluse solo di recente, hanno rivelato uno scenario che sembra uscito da un romanzo dell’orrore. Il reparto blu, chiuso oggi per carenze igienico-sanitarie, era diventato il teatro di veri e propri abusi nei confronti dei detenuti, spesso con problemi psichiatrici. Qui, lontano da occhi indiscreti – visto che non vi erano telecamere – i detenuti venivano sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, come raccontato dal procuratore di Trapani Gabriele Paci: “Venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina e sottoposti a violenze quasi di gruppo, gratuite e inconcepibili”.
Una prassi agghiacciante
Secondo quanto emerso, l’uso della violenza non era un episodio isolato, ma una prassi per alcuni agenti. “Non si trattava di sfoghi sporadici, ma di un metodo per garantire l’ordine”, ha dichiarato Paci, aggiungendo che il gip Giancarlo Caruso ha riconosciuto in questi atti la configurazione del reato di tortura.
Circa venti i casi accertati finora, ma le indagini sono state rese possibili solo grazie all’installazione di telecamere nel reparto blu, oggi chiuso. “Era un girone dantesco”, ha aggiunto il procuratore, “che sembra ripreso direttamente dalle pagine de I Miserabili di Victor Hugo”.
L’indagine e le reazioni
Le indagini, coordinate dal nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria di Palermo, hanno rotto il muro di omertà che spesso avvolge situazioni simili. Nonostante lo stress e le difficili condizioni lavorative degli agenti siano stati riconosciuti dal procuratore Paci, “questo non legittima assolutamente le violenze”, ha precisato.
Il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, ha espresso soddisfazione per il fatto che il reato di tortura abbia permesso di incriminare i responsabili. “Questo reato è fondamentale per perseguire chi si macchia di simili crimini e per sostenere le vittime. Ma, soprattutto, è cruciale per rompere il muro di omertà”, ha commentato.
Gonnella ha lodato le professionalità interne all’Amministrazione penitenziaria che hanno permesso di far emergere la verità e riconoscere i diritti fondamentali dei detenuti. “Ora ci auguriamo che si faccia piena chiarezza, riconoscendo le responsabilità in sede processuale”.
Un sistema sotto accusa
Il carcere di Trapani non è il primo a finire al centro di uno scandalo simile. Questi episodi mettono in evidenza un sistema che sembra incapace di proteggere i diritti fondamentali dei detenuti, pur riconoscendo le difficoltà operative degli agenti penitenziari. Tuttavia, ciò che emerge con forza è che nulla può giustificare una simile degenerazione del ruolo delle forze dell’ordine.
Le indagini proseguono, e con esse la speranza che episodi come quelli avvenuti nel carcere Cerulli diventino, finalmente, solo un ricordo del passato.
Cronaca Nera
Giulio Regeni, il racconto delle torture: «Bendato e portato a spalla, sfinito dal dolore»
Durante il processo contro quattro 007 egiziani, un testimone racconta il brutale trattamento subito da Giulio Regeni. In aula, il video proiettato da Al Jazeera e la commossa testimonianza della sorella riportano alla luce dettagli atroci.
Giulio Regeni «ammanettato con le mani dietro la schiena, bendato, portato a spalla da due carcerieri perché sfinito dalla tortura». È questo uno dei dettagli emersi oggi durante il processo in corso a Roma contro quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati della morte del ricercatore friulano, rapito e ucciso al Cairo nel 2016.
Un cittadino palestinese, ex detenuto in una struttura di sicurezza egiziana, ha raccontato in un video trasmesso da Al Jazeera e proiettato in aula: «L’ho visto uscire da un interrogatorio. Era piegato dal dolore, non riusciva a stare in piedi. Lo riportavano alle celle sorreggendolo».
Le parole strazianti del testimone si sono unite alla commovente testimonianza di Irene Regeni, sorella di Giulio, che ha ricordato in lacrime il fratello: «Era un ragazzo normale, appassionato di storia e culture diverse. Studiava l’arabo ed era entusiasta di partire per l’Egitto. Per me era un esempio, il fratellone che dava consigli. Non immaginavamo che sarebbe finita così».
La famiglia Regeni non ha mai smesso di cercare la verità. Durante l’udienza, Irene ha raccontato come scoprì della tortura inflitta a Giulio: «Ricordo una telefonata di mia madre: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».
Anche il medico legale incaricato di analizzare il corpo di Giulio ha confermato le atroci sofferenze subite: «Bastonate sui piedi, bruciature e ammanettamento di polsi e caviglie. È stato sottoposto a torture indicibili».
Il processo rappresenta un tentativo di fare luce su uno dei casi di violazione dei diritti umani più controversi degli ultimi anni, con un’attenzione crescente da parte della comunità internazionale.
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