Cronaca
Santanchè a processo per falso in bilancio: la ministra rinviata a giudizio nel caso Visibilia
Bilanci truccati per anni, perdite milionarie occultate e azionisti raggirati: il primo processo da imprenditrice per la ministra del Turismo. Ma le grane giudiziarie non finiscono qui

Daniela Santanchè dovrà affrontare il suo primo processo in qualità di imprenditrice. La ministra del Turismo, insieme ad altre 19 persone, è stata rinviata a giudizio dal GUP di Milano, Anna Magelli, con l’accusa di false comunicazioni sociali nell’ambito del caso Visibilia, il gruppo editoriale da lei fondato e da cui ha dismesso le cariche nel 2022.
Falso in bilancio e società in crisi: le accuse alla ministra
Le indagini della Guardia di Finanza hanno portato alla luce bilanci truccati dal 2016 al 2022, con perdite milionarie occultate per tenere in piedi il gruppo e ingannare gli investitori. Secondo i PM Marina Gravina e Luigi Luzi, nel mirino c’è soprattutto l’iscrizione “gonfiata” della voce avviamento nei bilanci di Visibilia Editore, con valori che oscillavano tra 3,2 e 3,8 milioni di euro, senza che venisse effettuata la svalutazione necessaria.
Un maquillage contabile che, secondo l’accusa, ha permesso a Santanchè e agli altri imputati di trarre profitto da aziende ormai in dissesto, continuando a operare nonostante segnali evidenti di crisi finanziaria.
La difesa di Santanchè: “Nessuna manipolazione dei conti”
I legali della ministra, Nicolò Pelanda e Salvatore Sanzo, respingono le accuse e parlano di un processo basato su contestazioni già archiviate in passato. Secondo la difesa, gli azionisti erano sempre informati sulla situazione finanziaria e non ci sarebbe stato alcun occultamento di dati.
Non solo falso in bilancio: le altre inchieste su Santanchè
Oltre a Visibilia, Santanchè dovrà fare i conti con altri due procedimenti:
Caso INPS e cassa integrazione Covid: Il 29 gennaio la Cassazione dovrà decidere se il processo per truffa aggravata ai danni dell’INPS si svolgerà a Roma o a Milano. L’accusa riguarda presunte irregolarità nell’uso della cassa integrazione durante la pandemia, con dipendenti che avrebbero continuato a lavorare nonostante risultassero in Cig.
Bancarotta di Ki Group e Bioera: La ministra è indagata per bancarotta fraudolenta dopo il fallimento delle società della galassia Ki Group e Bioera, attive nel settore del bio-food.
Cosa succede ora?
Il processo per falso in bilancio si aprirà nei prossimi mesi a Milano, mentre il destino degli altri procedimenti è ancora da definire. Per Santanchè, che fino a oggi ha difeso il suo operato in ogni sede, si apre una fase delicata, con la politica che osserva attentamente le evoluzioni del caso.
L’ennesima grana giudiziaria per il governo Meloni, che dovrà decidere se continuare a sostenere la ministra o se il peso delle accuse diventerà troppo ingombrante.
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Cronaca Nera
“Le donne intelligenti non me le filo neanche di striscio”: il lato oscuro e narciso di Messina Denaro, tra amanti colte e complicità criminale
Laura Bonafede e Floriana Calcagno, due professoresse cresciute in ambienti mafiosi, non erano semplici amanti: proteggevano, coprivano e veneravano Matteo Messina Denaro. Lui, narciso patologico, si sentiva adorato come una divinità. E intanto scriveva di “sensazioni liquide”, Rolex e bocche disegnate da Dio.

È una delle pagine più sconcertanti e paradossali della lunga storia criminale di Matteo Messina Denaro. Il boss stragista, l’ultimo grande latitante di Cosa Nostra, non si nascondeva solo tra complicità maschili e silenzi omertosi. Al suo fianco, nella rete protettiva che gli ha permesso per anni di sfuggire alla cattura, ci sono state soprattutto donne.
Donne istruite, laureate, insegnanti
Non solo figure devote e silenziose, ma donne istruite, laureate, insegnanti. Donne che di giorno spiegavano regole, educavano bambini, indossavano il linguaggio della legalità. E poi, fuori dalle aule, recitavano il copione spietato del potere mafioso, della fedeltà cieca, della lealtà a un uomo che chiedeva non amore, ma venerazione assoluta.
Due vite apparentemente “normali”
Floriana Calcagno, 50 anni, insegnante di matematica. Laura Bonafede, maestra, figlia di un boss, moglie di un ergastolano. Due cattedre. Due vite apparentemente “normali”. E un’unica, oscura costante: Matteo Messina Denaro. Entrambe lo hanno amato. Entrambe lo hanno protetto, coperto, aiutato nei suoi spostamenti, nei suoi nascondigli, nella latitanza durata trent’anni. Non solo relazioni sentimentali, ma alleanze strategiche. O, come hanno definito i magistrati, accudimento criminale.
Pizzini e covi segreti
Eppure, la trama di questa storia non è fatta solo di pizzini e covi segreti. È fatta di parole, scritte dal boss stesso nei suoi diari. Parole che rivelano un narcisismo sconfinato, patologico, sessista. “Quando parlo con una donna, suscito in lei una sensazione liquida che la fa tremare”, scriveva con compiacimento.
Frasi da romanzo
“Una mi disse: hai la bocca perfetta, disegnata dal Dio delle labbra”. Frasi da romanzo grottesco, eppure rivelatrici di un delirio di onnipotenza che si rifletteva anche nei rapporti più intimi.
Onore era sinonimo di silenzio
Non amava le donne intelligenti, lo diceva lui stesso. “Le donne intelligenti non me le filo neanche di striscio”. Preferiva chi lo assecondava, chi lo guardava come un dio, chi si piegava alla sua mitologia personale. Eppure, Floriana e Laura erano due donne colte, non certo sprovvedute. Ma cresciute in ambienti dove il crimine era cultura, dove l’onore era sinonimo di silenzio, dove l’appartenenza contava più della legge.
Devozione amorosa
Il punto non è solo la complicità emotiva o la devozione amorosa. È il fatto che queste donne, in ruoli pubblici, educativi, abbiano partecipato attivamente a un meccanismo di protezione mafiosa. Floriana Calcagno portava soldi al boss, lo ospitava, gli faceva da staffetta. Nella sua casa, i carabinieri del Ros hanno trovato tre Rolex, probabilmente doni del boss.
Gelosia e veleno
Laura Bonafede, invece, scriveva pizzini intrisi di gelosia e veleno, soprannominava la rivale “handicap” e “sbreghis”. Eppure lo chiamava “amico”, lo accoglieva, lo adorava. Fino a sfiorare il ridicolo: “Abbiamo incontrato l’handicappata, ci ha salutate, aveva un Moncler datato e un paio di anfibi (secondo me c’è il tuo zampino). Nero Giardini. Terribile”.
La tragicommedia di un amore tossico
In un altro pizzino scriveva: “Una volta, al limoneto, mi dicesti che al ritorno di Uomo e, successivamente, di Bamby, la nostra amicizia si interrompeva”. “Uomo” è il padre, storico boss di Campobello di Mazara. “Bamby” forse il marito. E in mezzo, la tragicommedia di un amore tossico, di una relazione nascosta ma totalizzante.
Un dio terreno
Dietro questi racconti c’è il volto più inquietante del boss: quello che credeva di essere irresistibile. E in effetti lo era, ma non per fascino. Perché incarnava il potere, la paura, il controllo. Perché era il centro di un culto. Aveva costruito la sua immagine come quella di un dio terreno: implacabile, sfuggente, idolatrato. Non cercava donne. Cercava fedeli.
Presuntuoso
Il narcisismo, scriveva nei suoi diari, era parte di sé. Non lo negava. Anzi, lo rivendicava: “Sì, sono presuntuoso, ma è la realtà delle cose”. Segnava su post-it ogni incontro. Ogni conquista era un trofeo, ogni amante un nome da appuntare, un dettaglio da archiviare. Nessun calore, nessuna emozione. Solo controllo.
E la cosa più grave, oggi, è il cortocircuito culturale che questa storia porta alla luce. Perché se la scuola è il luogo che forma cittadini, è anche il primo baluardo contro la cultura mafiosa. Ma cosa succede quando l’insegnante insegna regole al mattino e di notte infrange la legge? Cosa accade se, dietro la lavagna, c’è una fedeltà più profonda verso il silenzio mafioso che verso la Costituzione?
La vera tragedia è qui. Non nell’amore malato. Ma nella disillusione che semina. Perché quando un ragazzo scopre che la sua professoressa protegge un boss, non importa più cosa dice la lezione. La fiducia è spezzata. E la mafia, anche senza parlare, ha già vinto un altro piccolo pezzo di futuro.
Storie vere
Da top manager (Ikea) a tassista notturno: la rinascita di Vincenzo Pezzarossa
Una scelta di vita coraggiosa: Vincenzo Pezzarossa lascia il successo internazionale per dedicarsi alla famiglia e alla scrittura.

Vincenzo Pezzarossa, 51 anni, ha vissuto una vita che sembra uscita da un romanzo. Laureato in Giurisprudenza, ha iniziato la sua carriera come giornalista, per poi diventare un manager di successo per Ikea, girando il mondo e vivendo a mille all’ora. Ma un giorno, in una piovosa riunione in Svezia, ha avuto una crisi di nervi che gli ha cambiato la vita. Ha deciso di lasciare tutto, tornare a Milano e reinventarsi come tassista notturno: GIOVE 100. Una scelta che, come dice lui, gli ha permesso di “rallentare e recuperare il tempo con mia moglie e mia figlia. Il tempo non ha prezzo“. Una storia che ha raccontato nel libro “Che Dio tassista anche tu come me cambierai vita“ PAV Edizioni.
Vincenzo era un top manager che girava il mondo
Per anni, Vincenzo ha lavorato per Ikea, ricoprendo ruoli di prestigio come “country communication and change manager”. Viaggiava continuamente, partecipando a progetti internazionali che lo portavano in giro per il mondo. “All’inizio ti diverti, poi diventa alienante. Il mio matrimonio stava per crollare, e ho perso gli anni della crescita di mia figlia“. La svolta è arrivata durante una riunione: “Mi sono reso conto che non volevo più vivere così. Dovevo tornare a Milano e lavorare per vivere, non vivere per lavorare“. L’idea di diventare tassista è nata quasi per caso. “Un giorno, a Linate, ho preso un taxi guidato da un laureato in Economia che aveva mollato tutto per costruirsi una seconda vita. Ho pensato: perché no?“. Dopo aver ottenuto le certificazioni necessarie, Vincenzo ha iniziato il suo nuovo lavoro. “Il primo giorno è stato un disastro: mi sono incastrato sulle rotaie del tram, ho sbagliato strada e ho dovuto offrire corse gratis. Ma non mi sono arreso“.
Ha scelto di guidare nella notte di Milano
Oggi Vincenzo lavora principalmente di notte, un turno che gli permette di organizzare meglio il suo tempo e stare con la famiglia. “Attacco alle 16 e smonto alle due di notte. Prima, da manager, era no-stop. Ora posso fermarmi a prendere un caffè se ne ho voglia“. Ma la notte porta con sé anche incontri inaspettati e storie incredibili. “Una volta ho prelevato una ragazza davanti a un hotel, e durante il tragitto ha iniziato a spogliarsi. Il marito, seduto dietro, sembrava dormire. Alla fine, lui mi ha detto: ‘Lei è un idiota, non ha idea di che occasione ha gettato al vento’. Puntavano a un ménage à trois“. Essere tassista avrà anche i suoi vantaggi? “Certo posso vedere crescere mia figlia e mia moglie è orgogliosa di me. Lo stipendio non è quello di un tempo, ma non ho mai pensato fosse una retrocessione“. Tuttavia le difficoltà non mancano. “È un lavoro usurante e c’è sempre il tema della sicurezza. Una volta mi hanno puntato un coltello per rapinarmi, ma erano più spaventati di me e sono scappati“.
Nonostante tutto, Vincenzo non esclude di cambiare di nuovo vita
“Sono un’anima irrequieta. Mi sono arrivate un paio di proposte interessanti dal mondo del marketing. Tempo al tempo, di spazio nello scaffale della mia vita ce n’è ancora“. Nel frattempo, continua a scrivere e a raccogliere storie dai suoi passeggeri, alimentando la sua passione per la narrazione. “Con noi tassisti, le persone si lasciano andare, come in un confessionale. È un mestiere che ti permette di osservare da vicino uno spaccato di umanità“.
Mistero
L’incredibile storia di Charles Joughin, il fornaio sopravvissuto al naufragio del Titanic. Sarà vera?
Nonostante alcune incongruenze, la vicenda di Joughin, il capo panettiere del Titanic, continua a suscitare fascino e curiosità.

Chiariamo subito che ci sono alcune incongruenze nella storia di Charles Joughin, capo panettiere a bordo del Titanic, noto non solo per essere sopravvissuto alla tragedia ma per il curioso dettaglio del suo racconto. Joughin dichiarò che per resistere nelle acque gelide dell’Atlantico si sarebbe aiutato con l’alcol. Una storia che, seppur romanzata o alterata dai ricordi del momento, rimane affascinante e ci consegna il ritratto di un uomo comunque resiliente.
Ma chi era Charles Joughin?
Nato il 3 agosto 1879 a Birkenhead, Liverpool, mister Joughin era già un uomo esperto nella gestione delle cucine navali quando si arruolò per lavorare sul Titanic. Aveva lavorato come capo panettiere sulla nave gemella del Titanic, l’Olympic, e nel 1911 risultava residente a Elmhurst con la moglie Louise e i due figli piccoli, Agnes e Roland. A bordo del Titanic, Joughin era responsabile di una squadra di 13 panettieri.
La notte del naufragio? Distribuiva pagnotte e lanciava in acqua le sedie sdraio
Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, quando il Titanic colpì l’iceberg alle 23:40, Charles Joughin si trovava nella sua cabina fuori servizio. Resosi conto della gravità dell’incidente, inviò i suoi panettieri a rifornire i passeggeri con 50 pagnotte destinate alle scialuppe di salvataggio. Dopo essersi assicurato che il suo staff fosse al lavoro, Joughin decise di bere un bicchiere di whisky. Più tardi raggiunse il ponte e aiutò donne e bambini a salire sulla scialuppa a lui assegnata, la numero 10, senza però prenderne posto per dare l’esempio. Con le scialuppe già partite e nessuna possibilità di salvezza apparente, Joughin si dedicò a lanciare sedie a sdraio in mare, con la speranza che potessero servire da appiglio per chiunque fosse caduto in acqua. Quando la nave si spezzò in due alle 2:10, fu una delle ultime persone a lasciare il Titanic, restando attaccato al relitto fino all’ultimo istante. Questo lo dice lui.
Come fece a sopravvivere mister Joughin
Joughin dichiarò di essere caduto in acqua poco prima che la nave affondasse completamente, sostenendo di non essersi nemmeno bagnato i capelli. Disse di aver nuotato per circa due ore nell’Atlantico gelido, fino a raggiungere una zattera di salvataggio pieghevole, la zattera B. Poiché questa era già sovraccarica, rimase in acqua fino a quando un collega dell’equipaggio, il cuoco Isaac Maynard, lo aiutò a salire a bordo. Successivamente venne tratto in salvo dalla nave Carpathia. Arrivò a New York il 16 aprile 1912, in buone condizioni fisiche, riportando solo un gonfiore ai piedi.
Le incongruenze del suo mirabolante racconto
La testimonianza di Joughin, pur avvincente che sia, presenta alcune incongruenze. Vediamo quali. La prima è il tempo di sopravvivenza nelle acque gelide dell’Atlantco. A temperature vicine agli 0°C, il corpo umano può resistere solo per pochi minuti prima che l’ipotermia diventi letale. Le due ore menzionate da Joughin sembrano davvero molto improbabili. Andiamo avanti. La seconda incongruenza è l’effetto dell’alcol. Contrariamente alla convinzione popolare, l’alcol non protegge dal freddo. Essendo un vasodilatatore, accelera la perdita di calore corporeo, aumentando il rischio di ipotermia. È possibile, però, che l’alcol abbia attenuato lo shock psicologico e fisico, dandogli un senso temporaneo di calore e coraggio. Alcuni esperti ipotizzano che Joughin possa non essere stato in acqua per tutto il tempo indicato o che il suo racconto sia stato influenzato dal trauma e dall’impatto emotivo. E fin qui ci siamo.
La sua testimonianza in un libro sulla tragedia
Dopo il naufragio, Joughin tornò in Inghilterra e partecipò come testimone all’inchiesta britannica sulla tragedia, che si tenne tra maggio e luglio 1912. Continuò a lavorare come panettiere su navi da crociera e, dopo la Prima Guerra Mondiale, si arruolò nella marina mercantile. Alla fine, si trasferì in New Jersey, negli Stati Uniti, dove visse fino alla sua morte, avvenuta il 9 dicembre 1956 a causa di una polmonite. Joughin lasciò un’impronta indelebile nella storia del Titanic, raccontando un’esperienza di sopravvivenza davvero unica che mescola tenacia, fortuna e tanta leggenda. Cos’ leggendario che la sua testimonianza venne inclusa nel libro A Night to Remember di Walter Lord, che ancora oggi resta una delle opere più autorevoli sulla tragedia.
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