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Storie vere

Dai frammenti di un cuore spezzato, Lisa rinasce avventuriera

Dopo 20 anni di matrimonio, un addio inaspettato. Ma per Lisa VanderVeen, il divorzio è stato l’inizio di una nuova vita, fatta di viaggi, scoperte e rinascita.

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    Venti anni di vita condivisa, sogni costruiti insieme e un futuro che sembrava scritto. Poi, all’improvviso, un fulmine a ciel sereno: le parole secche e crude del marito che annunciano la fine di tutto. Lisa si ritrova sola, disorientata, a cinquant’anni, con un mondo che sembra crollarle addosso. Ma è proprio in questo momento di fragilità che nasce in lei una forza inaspettata.

    Il primo passo non si scorda mai

    Un weekend lungo, un’infinita solitudine e una decisione impulsiva: prenotare un volo per il Belgio. È come se Lisa, spinta da un’irrefrenabile voglia di cambiare aria, volesse allontanarsi il più possibile dalla sua vecchia vita. A Bruxelles, tra le piazze scintillanti e i profumi del cioccolato, inizia a respirare un’aria diversa. Il freddo pungente dell’inverno sembra sciogliersi di fronte alla bellezza della città, e Lisa, passeggiando per le vie medievali, sente un calore che non provava da tempo.

    Là fuori c’è tutto un mondo da esplorare

    Il viaggio in Belgio è solo l’inizio di una lunga avventura. Il Portogallo, con i suoi paesaggi mozzafiato e la sua gente calorosa, la accoglie a braccia aperte. Poi il Nepal, con la sua spiritualità profonda e la sua natura incontaminata. E ancora, l’Ungheria, la Laos, la Turchia, la Finlandia… Ogni destinazione è una scoperta, un’emozione unica che la riempie di gioia e di meraviglia. Oggi, finalmente, Lisa non è più la donna timida e insicura di una volta. Viaggiando da sola, ha imparato a conoscere se stessa, a superare le proprie paure e a fidarsi dei propri istinti. Ha scalato montagne, navigato fiumi, assaggiato cibi esotici, parlato lingue diverse. Ogni esperienza è stata un tassello fondamentale per costruire la nuova donna che è diventata.

    Una rinascita inaspettata? Non proprio le risorse umane sono infinite…

    Oggi, Lisa guarda al passato con serenità. Il divorzio, pur dolorosissimo, è stato un punto di svolta, un’opportunità per reinventarsi. Grazie ai suoi viaggi, ha trovato una nuova passione, una nuova ragione di vivere. Ha scoperto che la felicità non si trova in un luogo specifico, ma dentro di sé. La storia di Lisa è un esempio di come sia possibile trasformare un momento di grande dolore in un’occasione di crescita e rinascita. È un invito a uscire dalla propria comfort zone, a esplorare il mondo e a scoprire le infinite possibilità che la vita ci offre. Ci sentiamo di concludere citando le parole di Henry David ThoreauUn uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno”. E Lisa, con i suoi viaggi, ha arricchito la sua vita in modo straordinario.

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      Panino “fatale”. A Vicenza uomo di 80 anni mangia una tinta per capelli scambiandola per maionese

      Scambia il tubetto di maionese con la tinta per capelli della moglie, lo spalma nel tramezzino e se lo mangia. E’ salvo.

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        Ma come avrà fatto a non capirlo al volo che stava mangiando una tintura per i capelli della moglie al posto della maionese? L’episodio singolare che avrebbe potuto avere conseguenze gravi si è verificato a Vicenza, dove un uomo di 80 anni ha vissuto un’esperienza decisamente insolita. L’anziano ha deciso di prepararsi un tramezzino con prosciutto e formaggio, e una classica spalmata di maionese. Ma al posto della maionese, l’uomo ha spalmato sul suo panino la tinta per capelli della moglie, conservata insieme agli alimenti sugli scaffali della cucina. Dopo aver consumato il pasto, sono iniziati i primi sintomi di malessere: forti dolori allo stomaco, sensazione di bruciore e nausea.

        L’intervento del Centro antiveleni di Verona

        Realizzando la gravità della situazione, l’ottantenne ha contattato il Centro antiveleni di Verona, rifiutandosi però di recarsi al pronto soccorso. La dottoressa Lucia Drezza gli ha fornito precise istruzioni per affrontare la situazione: assumere gastroprotettori, digiunare per almeno quattro ore e mantenere un contatto costante con il Centro. Seguendo queste indicazioni, l’uomo è riuscito a ristabilirsi nel giro di poche ore.

        Una storia che si ripete

        Questo episodio è solo una delle 14.000 chiamate annuali ricevute dal Centro antiveleni di Verona. Il responsabile, il dottor Giorgio Ricci, ha spiegato che tra i casi più comuni ci sono genitori preoccupati per bambini che ingeriscono sostanze potenzialmente dannose, anziani con demenza senile che commettono errori simili a quello del vicentino, e raccoglitori di funghi inesperti che si intossicano con specie non commestibili.

        Sicurezza domestica: che fare?

        La vicenda del tramezzino “al gusto di ammoniaca” è un promemoria sull’importanza di conservare i prodotti non alimentari lontano dai cibi e di prestare attenzione alle attività domestiche. Ci si chiede chissa come avrà fatto quel prodotto per capelli a entrare nel frigorifero, forse per mantenere la propria freschezza e integrità. Ci sta. Bisognerebbe magari etichettare meglio le sostanze non alimentari contenute nel frigorifero. Per questa volta è andata bene. La prontezza del Centro antiveleni e la capacità dell’uomo di seguire le istruzioni hanno evitato conseguenze più gravi, trasformando un errore potenzialmente fatale in una disavventura da raccontare.

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          Dalla sanità pubblica del Nord al privato al Sud. L’infermiere lascia il suo posto di lavoro a causa del caro affitti

          Lunedì 31 marzo è stato il suo ultimo giorno di lavoro per il Policlinico di Bologna. Sarà ufficialmente fuori servizio dal 17 aprile. Tornerà a vivere (e a lavorare) a Reggio Calabria.

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            Pavels Krilovs è un infermiere di 35 anni che ha deciso di lasciare il suo lavoro al Pronto Soccorso dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna per trasferirsi a Reggio Calabria. Nel capoluogo calabrese lavorerà in una struttura privata. La sua scelta, che riflette una tendenza sempre più diffusa tra i professionisti della sanità, è dovuta da una combinazione di fattori. Primo fra tutti il costo insostenibile degli affitti nelle grandi città del Nord, le difficili condizioni lavorative e la mancanza di riconoscimento economico per chi opera in prima linea.

            Ma perchè proprio Reggio Calabria?

            Semplice Pavels Krilovs, nato in Lettonia è cresciuto a Reggio Calabria dall’età di 11 anni. Pavels ha sempre amato il suo lavoro, scegliendo il Pronto Soccorso per la dinamicità e l’importanza del ruolo. Tuttavia, le lunghe ore in piedi, la pressione costante e le responsabilità elevate non sono mai state adeguatamente compensate. “Guadagno lo stesso stipendio di un collega in laboratorio, ma il carico di lavoro e le difficoltà sono incomparabili“, racconta. A questo si aggiungono le aggressioni verbali e fisiche, ormai all’ordine del giorno nei Pronto Soccorso, che rendono l’ambiente lavorativo sempre più ostile.

            Il peso degli affitti sulla decisione dell’infermiere

            Il costo della vita a Bologna è stato il fattore determinante nella decisione di Pavels. Con uno stipendio di circa 2.000 euro al mese, quasi la metà veniva spesa per una stanza singola in un appartamento condiviso con altri tre colleghi. “A 35 anni non è dignitoso dover condividere casa. Non è più garantito il diritto all’abitazione“, spiega. La situazione è ancora più critica per chi guadagna meno o ha una famiglia da mantenere. A Reggio Calabria, Pavels avrà una casa propria e uno stipendio più alto, grazie al passaggio al settore privato, dove gli infermieri possono guadagnare fino a 30 euro all’ora. “Non è stata una decisione facile, ma necessaria. Finalmente potrò lavorare in un ambiente più sostenibile e vivere dignitosamente“, dice.

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              Storie vere

              Scarpini, fede e fuorigioco: la nazionale di calcio delle suore sogna un mondiale in Vaticano

              Le Sister Football Team scendono in campo in pantaloncini e capo scoperto per evangelizzare con il pallone. Suor Francesca: “Il calcio mi ha insegnato l’obbedienza. Oggi sogno di giocare davanti al Papa guarito”

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                Dal convento al campo, senza mai smettere di sorridere. Con le ginocchiere al posto del rosario e il Vangelo nel cuore, le Sister Football Team sono la prima Nazionale di calcio femminile composta interamente da religiose. E non è uno scherzo. Con pantaloncini, maglietta e niente velo, queste suore entrano in campo per beneficenza, ma anche per evangelizzare. E, perché no, per vincere. Il loro sogno? Un mondiale tutto al femminile, con suore da ogni parte del mondo, giocato in Vaticano davanti al Papa ristabilito.

                Un’idea che oggi ha il volto sorridente di suor Francesca Avanzo, 40 anni, religiosa agostiniana di San Giovanni Valdarno, insegnante di religione e attaccante sulla fascia. Una che di pallone se ne intende. “Ho cominciato da piccola, giocando coi maschi a Rovigo, dove sono nata. A dodici anni ero già in una squadra femminile. Mi chiamavano ‘Chica’, ero un maschiaccio, lo sport era la mia passione. Ma il calcio… il calcio era un richiamo irresistibile”.

                La nazionale è affiliata alla Lazio e la sua prima presidente è stata suor Paola, volto amatissimo della tv e tifosa sfegatata, scomparsa pochi giorni fa. “È stata la prima a portare le suore nel mondo del calcio – racconta suor Francesca – sfidando i pregiudizi della Chiesa e anche della sua superiora. Un esempio di libertà e coraggio che oggi ci guida come una capitana invisibile”.

                In panchina siede Moreno Buccianti, ex calciatore e già allenatore della celebre “Seleçao” dei sacerdoti. A benedire l’iniziativa c’è una lettera di incoraggiamento del Papa in persona, che per le sorelle è ormai una reliquia motivazionale.

                Ma com’è giocare da suora in un mondo che ancora fatica a immaginare le religiose fuori dall’oratorio?

                Mai avuto paura delle critiche. Ho consacrato la vita al Signore, non serve un abito per dimostrarlo. E poi, ho ricevuto subito il via libera dalla mia superiora: ha capito che oggi anche il messaggio di Cristo può passare dagli scarpini”.

                Suor Francesca gioca esterno d’attacco, non si sente Messi né Ronaldo, ma ha un idolo: “Barbara Bonansea, della Juve e della Nazionale. Mi piacerebbe saper tirare come lei. Il calcio maschile invece mi ha un po’ nauseato: tra genitori che si prendono a botte alle partite dei figli e stipendi miliardari, è diventato un mondo poco etico”.

                Le Sister Football Team giocano sul serio. “Sì, partecipiamo per vincere. Siamo competitive. Suor Emilia, per esempio, giocava nella Nazionale romena prima della vocazione. E il nostro ultimo successo è freschissimo: il 23 marzo a Bologna abbiamo vinto 3 a 1, per beneficenza”.

                E il calcio, spiega, è uno strumento potente anche per evangelizzare: “Ai bambini parlo di Gesù con le metafore del campo: spirito di gruppo, panchina, sacrificio. È un linguaggio che capiscono”.

                La consacrazione, racconta, le è sembrata una naturale prosecuzione delle regole di spogliatoio. “Obbedienza, ascolto, spirito di squadra: se giochi a calcio, entri più facilmente in convento. È come se lo avessi sempre fatto”.

                Alla domanda se si sente pronta a giocare per il Papa, suor Francesca non esita. “L’ho incontrato due volte. Ci ha benedette e incoraggiate. Se venisse a vederci, sarebbe il nostro mondiale personale”.

                La palla è rotonda, anche per chi ha preso i voti. E in fondo, dice suor Francesca, “non importa se il campo è un prato o il mondo intero: l’importante è continuare a correre verso il bene”.

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