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Cronaca

Sua Maestà al Quirinale tra spigola al sale e carciofi: il re ambientalista servito “alla francese”

Per la visita di Stato del sovrano britannico, Mattarella sceglie un menu sobrio e a chilometro zero. Niente caviale o foie gras, ma caponata, bottoncini e torta gelato. Dietro le quinte, il cerimoniale da alta scuola e l’occhio vigile della chef Chiara Condoluci. Carlo, intanto, applaude: è il primo re ambientalista d’Europa.

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    Altro che sfarzo regale, caviale e foie gras: al Quirinale si mangia leggero. Spigola in crosta di sale, patate arrosto, verdure dell’orto presidenziale. Il menu per il pranzo di Stato in onore di Re Carlo III e della regina Camilla è tutto un inno all’essenzialità, con tocchi di italianità spinta e un chiaro messaggio politico: qui si rispetta la terra, non si spreca niente, e la vera eleganza sta nella semplicità.

    A deciderlo, sotto l’attenta guida dello chef Fabrizio Boca, è stata Chiara Condoluci, che ha orchestrato le quattro portate pensate per stupire senza esagerare. Antipasto vegetariano con prodotti di Castelporziano, caponata di melanzane servita in versione farcitura per bottoncini di pasta fresca, spigola in crosta di sale, carciofi e fiori di zucca. Per dolce, torta gelato fiordilatte con lamponi. Il tutto in meno di un’ora, con servizio “alla francese”, cioè niente impiattamenti scenografici: i piatti passano tra i tavoli, gli ospiti si servono da sé. Un modo sobrio — e un po’ vintage — di sottolineare che qui, anche tra tappeti rossi e inni nazionali, non si dimentica il buon gusto.

    E non solo culinario. Perché a tavola, quando si accolgono i reali d’Inghilterra, il menu è solo la punta dell’iceberg. A raccontarlo è Stefano Colantuoni, responsabile del settore ospitalità e ricevimenti del Quirinale: “Dietro ogni evento di questo tipo c’è uno studio minuzioso: si parte dagli archivi, si controlla se e quando l’ospite è già stato in visita, che cosa ha mangiato, che vini sono stati serviti. Nulla va ripetuto, nulla è improvvisato”. Insomma, ogni pranzo di Stato è un incrocio tra MasterChef, Indiana Jones e un simposio internazionale.

    Il risultato, però, è un’accoglienza che racconta l’Italia: i suoi orti, i suoi artigiani del gusto, le sue bottiglie migliori — anche quelle meno note. “Cerchiamo sempre di valorizzare la varietà delle cucine regionali, e di dare spazio anche ai piccoli produttori”, spiega Colantuoni. Una bottiglia di Barolo accanto a un rosso calabrese, un carciofo romano vicino a una melanzana di Pachino: un’Italia intera in quattro portate.

    E chissà se Re Carlo avrà sorriso di complicità davanti alla caponata, piatto che omaggia le origini siciliane del Presidente Mattarella. Di certo, il menu ha parlato la lingua del sovrano: quella della sostenibilità. Da sempre sensibile ai temi ambientali, Carlo III ha fatto della lotta allo spreco alimentare e della difesa dell’ambiente la sua crociata regale. Non a caso, nella sua tenuta di Highgrove, in Gloucestershire, ha già ospitato cene italiane firmate dallo chef calabrese Francesco Mazzei. E non è difficile intuire che la presenza di ingredienti locali, coltivati senza forzature e serviti con sobrietà, sia stata più gradita di qualsiasi piatto scenografico.

    Anche la scelta del servizio “alla francese” non è casuale: è la formula più elegante proprio perché non impone nulla. Si offre, si propone, si lascia scegliere. Una metafora diplomatica, forse, ma anche un modo di non mettere mai in imbarazzo gli ospiti. E oggi, nella diplomazia internazionale, anche una forchettata può valere più di una stretta di mano.

    Intanto il cerimoniale procede come un metronomo, e nulla è lasciato al caso. Si studia la provenienza dell’ospite, la cultura gastronomica, eventuali precetti religiosi o preferenze alimentari. Si evitano ripetizioni, si calibra tutto sul profilo dell’ospite. Re Carlo è vegetariano? Non proprio. Ma ama la cucina leggera e detesta lo spreco. Missione compiuta, dunque.

    E se qualche nostalgico del roast beef storcerà il naso, pazienza. Il Quirinale ha scelto di raccontare l’Italia vera, quella dei campi e dei fiori di zucca, delle nonne che cucinano con quello che c’è e delle cucine che non vogliono stupire, ma accogliere. Re Carlo se n’è accorto. E, chissà, magari avrà pensato che anche un re può sentirsi a casa… con una spigola al sale e una caponata ben fatta.

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      Storie vere

      Disabilità. separazione, resilienza. Così Giulia ha trasformato una tragedia in una vita felice

      Dopo un incidente che l’ha resa disabile e una dolorosa separazione, l’influencer racconta la sua storia di forza, resilienza e amore accanto al marito Andrea e ai loro due figli, dimostrando che la felicità è possibile anche oltre le avversità.

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        Ottobre 2011 è il mese che ha segnato un profondo cambiamento nella vita di Giulia Lamarca, influencer (con 725 mila follower), conosciuta per la sua forza e il suo messaggio di resilienza. A soli 19 anni, un grave incidente in moto le ha cambiato per sempre la quotidianità. Nove mesi di ricovero ospedaliero, la consapevolezza di non poter più camminare e l’addio del suo fidanzato dell’epoca. Un ragazzo che l’ha lasciata proprio nel giorno in cui ha ricevuto questa notizia devastante.

        Da una vigliaccata all’incontro della vita

        Dopo aver superato lo shock – il suo ex era in moto con lei il giorno dell’incidente – per Giulia le corsie dell’ospedale in cui ha vissuto i mesi più difficili della sua vita hanno creato lo spazio per un nuovo capitolo. In quelle stanze sempre uguali ha incontrato Andrea, il fisioterapista che sarebbe diventato il padre dei suoi figli, Ethan e Sophie. Ma tutto questo Giulia ancora non lo sapeva. Andrea si è innamorato subito di lei, ma «ci mise un po’ a conquistare la mia fiducia e il mio amore. Uscivo da un brutto periodo. Oggi posso dire di essere stata molto fortunata. È stato bello sentire che per lui andavo bene così». Infatti con il tempo, Andrea ha conquistato la fiducia e l’amore di Giulia, oggi trentenne, mostrando che per lui non contava la sua disabilità, ma la persona che era.

        Giulia è incredula di come si puo manifestare l’amore

        Giulia e Andrea sono una famiglia felice e incredula del percorso straordinario che hanno intrapreso insieme. “Non pensavo di poter raggiungere questo grado di felicità – confessa Giulia – siamo in quattro, è tutto vero?” Giulia è riuscita a fare della sua esperienza di vita un modo per sensibilizzare e incoraggiare il prossimo a non arrendersi mai.

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          Storie vere

          A 26 anni ha già tre case, come ha fatto? Ecco spiegato il successo finanziario di Charlie Sanderson

          Con un piano ben organizzato, disciplina e piccoli sacrifici, la giovane di Manchester dimostra che risparmiare e investire è possibile, senza mai rinunciare alla felicità e ai propri sogni.

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            Charlie Sanderson, una giovane di Manchester di soli 26 anni, è diventata un esempio di determinazione e organizzazione finanziaria. Con un piano ben studiato e un approccio metodico alle spese, è riuscita a comprare tre proprietà e ora si prepara per acquistare la sua quarta casa, senza mai rinunciare alla felicità. Ma come ha fatto? Ecco il suo percorso e le strategie che ha adottato. Magari ci si potrebbe ispirare…

            Il segreto del risparmio

            Charlie guadagna circa 40mila euro all’anno. Non poco ma nemmeno tanto. Al suo stipendio principale affianca lavoretti extra, come quello di “mystery shopper“. Ovvero una cliente misteriosa incaricata di valutare servizi e prodotti di aziende. Ma la chiave del suo successo sta nel modo in cui gestisce le sue spese. La giovane ha stabilito una regola ferrea: massimo 50 sterline al mese per tutto ciò che non è essenziale. Questo limite la aiuta a evitare spese inutili, ma non le impedisce di concedersi piccoli piaceri. Per esempio, in alcuni mesi spende meno di 10 sterline per cioccolato e snack, mentre in altri investe in esperienze che la rendono felice, come un pranzo fuori per lavoro o una serata al cinema. Seguendo il principio di ottimizzare anche queste spese, cerca di “ottenere il massimo” dalle piccole cose, dando priorità a ciò che ha un impatto positivo sulla sua vita.

            Gestire le proprie finanze… un gioco da ragazze

            Grazie a questa disciplina, Charlie ha già accumulato oltre 20mila sterline risparmiate, che ha investito saggiamente nelle sue proprietà. Inoltre, la sua capacità di pianificare a lungo termine le permette di bilanciare risparmio e obiettivi. Sta infatti lavorando per acquistare la casa dei suoi sogni e ha in programma un viaggio in Giappone il prossimo anno, dimostrando che è possibile risparmiare senza rinunciare alla propria felicità.

            Che cosa ci dice Charlie

            Con il suo esempio, Charlie sfida il pregiudizio secondo cui i giovani non sarebbero attenti al loro futuro. La sua dedizione e il suo metodo dimostrano che è possibile raggiungere grandi traguardi con uno stipendio medio e un’organizzazione intelligente delle finanze. La storia di Charlie non è solo una lezione di economia personale. Diventa un invito a credere nei propri sogni senza dimenticare di vivere il presente.

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              Mondo

              Scarpe da ginnastica sotto attacco: i dazi di Trump fanno tremare Nike e Adidas

              Nike, Adidas e Puma producono in Vietnam per abbattere i costi, ma ora rischiano grosso con le nuove tariffe volute da Trump. Spostare la produzione non sarà facile né rapido. Intanto aumentano i prezzi, crollano le Borse e si moltiplicano i timori per la catena globale della sneaker.

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                La guerra commerciale a stelle e strisce colpisce anche ai piedi. Nike, Adidas, Puma e tutti i principali produttori di scarpe sportive sono finiti nel mirino delle nuove tariffe Usa, e a farne le spese rischiano di essere sia i marchi internazionali sia gli stessi consumatori americani.

                Il presidente Donald Trump ha deciso di applicare una nuova tassa del 46% sulle scarpe importate dal Vietnam, attuale centro mondiale della produzione di calzature sportive. Un colpo durissimo per aziende che, da anni, hanno spostato l’intera filiera produttiva nel sud-est asiatico per ridurre i costi. Ora però, quelle stesse scarpe diventano improvvisamente troppo costose da importare negli Stati Uniti.

                Il peso del Vietnam nel mondo delle sneaker

                Nike, solo per citare il gigante del settore, ha avviato la produzione in Vietnam nel 1995 e oggi conta 130 fabbriche fornitrici nel Paese. Da lì arriva la metà della sua produzione di calzature. Anche Adidas dipende fortemente dal Vietnam, da cui importa quasi il 40% delle sue scarpe. Puma, stessa storia.

                Il Vietnam è diventato un pilastro della sneaker economy dopo che, nel primo mandato di Trump, molte aziende avevano abbandonato la Cina per evitare i dazi dell’epoca. Un processo lungo e complesso, reso possibile grazie a fornitori locali e a investimenti di gruppi sudcoreani e taiwanesi. Ora, il rischio è di dover traslocare di nuovo. E in fretta.

                Prezzi su, Borsa giù

                Secondo l’American Apparel & Footwear Association, la tariffa del 46% voluta da Trump si somma a dazi già esistenti del 20% sulle scarpe con tomaia in tessuto. Per restare a galla, le aziende dovranno alzare i prezzi fino al 20%, stima Adam Cochrane della Deutsche Bank.

                Nike ha già lanciato l’allarme nel suo rapporto trimestrale: “Navigare in questo ambiente incerto sarà complicato”, tra geopolitica, tariffe, valute e instabilità globale. Il risultato si è visto subito in Borsa: le azioni dell’azienda sono crollate ai minimi degli ultimi otto anni.

                Nuovi hub produttivi? Non prima di due anni

                Per chi vuole fuggire dal Vietnam, le opzioni non mancano: Messico, Brasile, Turchia ed Egitto sono tra i Paesi indicati dagli analisti come potenziali nuovi poli manifatturieri. Ma servono tempo, strutture, manodopera qualificata e soprattutto contratti.

                Lo spostamento della produzione richiederà dai 18 ai 24 mesi, spiegano gli esperti. E nel frattempo, i dazi restano. Anche perché Trump ha imposto tariffe minime del 10% su quasi tutti i partner commerciali, con picchi ben più alti su Cina e Indonesia, altri due importanti produttori di scarpe.

                Il paradosso della produzione americana

                Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma la realtà è che gli Stati Uniti non hanno fabbriche attrezzate né forza lavoro qualificata per realizzare scarpe sportive di alta gamma. Per questo, molti osservatori temono che l’unico effetto immediato sarà l’aumento dei prezzi per i consumatori americani.

                E intanto, in un mercato in cui il 99% delle calzature è importato, le grandi aziende valutano scenari alternativi: ridurre i volumi per gli Usa, dirottare i prodotti verso Europa, Medio Oriente o Cina, e tagliare i costi ovunque possibile. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica – osserva con amara ironia il Financial Times – quando la gente pagava i turisti per un paio di Levi’s originali.

                Le sneaker, insomma, sono diventate l’ultima vittima della guerra commerciale made in Trump. Un altro tassello nella strategia dei dazi che, più che rilanciare la manifattura americana, rischia di affossare le aziende e svuotare i portafogli dei consumatori. A colpi di dogana.

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