Cronaca
Codice della Strada, usare Google Maps o rifiutare una chiamata al volante può costarti una multa salata
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice della Strada il 14 dicembre 2024, anche azioni banali come consultare Google Maps o rifiutare una chiamata rischiano di mettere in guai seri gli automobilisti. Le regole sono chiare: mani sempre sul volante e via libera solo ai comandi vocali. Chi trasgredisce può incorrere in multe salatissime e nella sospensione della patente, soprattutto in caso di recidiva.

Il nuovo Codice della Strada, in vigore dal 14 dicembre 2024, ha alzato notevolmente l’asticella della severità, vietando l’uso manuale del cellulare durante la guida in qualsiasi forma. Se pensate che consultare Google Maps, rifiutare una chiamata o dare una rapida occhiata a un messaggio siano azioni innocue, preparatevi a ricredervi: ora possono costarvi una multa che oscilla tra i 250 e i 1.000 euro.
Ma non è tutto. In caso di violazione, la patente può essere sospesa per almeno una settimana, e se si viene sorpresi a trasgredire nuovamente, la sanzione economica può salire fino a 1.400 euro, con una sospensione che può arrivare a tre mesi.
L’obiettivo delle nuove disposizioni è ridurre il numero di incidenti causati dalla disattenzione degli automobilisti, una delle principali cause di sinistri sulle strade italiane. La normativa non lascia spazio a interpretazioni: mani sempre sul volante, e per gestire il cellulare è obbligatorio l’utilizzo di dispositivi vivavoce o comandi vocali integrati.
Questo inasprimento delle regole, se da un lato è stato accolto positivamente dagli esperti di sicurezza stradale, dall’altro ha sollevato numerose critiche. Molti automobilisti lamentano la difficoltà di rispettare norme così rigide, specialmente in situazioni d’emergenza o per chi non dispone di dispositivi vivavoce integrati.
L’insidia di Google Maps e dei piccoli gesti al volante
Tra le azioni incriminate, anche quelle che molti considerano parte della routine quotidiana alla guida, come consultare una mappa su Google Maps. Se il dispositivo non è impostato per funzionare con comandi vocali o non è fissato su un supporto che permetta di visualizzarlo senza toccarlo, rischiate una multa salata.
Gli esperti ricordano che anche un istante di distrazione può essere fatale, motivo per cui il nuovo Codice è stato progettato con tolleranza zero verso qualsiasi comportamento che distolga l’attenzione dalla guida. Secondo i dati della Polizia Stradale, nel 2023 l’uso improprio del cellulare è stato tra i primi cinque fattori di rischio per gli incidenti stradali.
Recidiva: il pugno duro del Codice
Se pensate di poter “cavare il ragno dal buco” con una semplice multa, sappiate che la nuova normativa colpisce con maggiore forza i recidivi. Al secondo o terzo richiamo, oltre alla sanzione economica più alta, si rischia la sospensione della patente fino a tre mesi. E per chi accumula infrazioni gravi, potrebbero scattare misure ulteriori, come il ritiro del documento di guida.
Come evitare problemi?
La soluzione migliore è dotarsi di un sistema vivavoce per gestire chiamate e navigazione in totale sicurezza. Se il vostro veicolo non è equipaggiato con questa tecnologia, esistono dispositivi esterni compatibili con la maggior parte degli smartphone. Inoltre, app come Google Maps offrono la possibilità di attivare le indicazioni vocali, eliminando così la necessità di guardare lo schermo durante la guida.
Non meno importante è pianificare il viaggio prima di mettersi al volante, impostando già la destinazione e i punti di interesse. Fermarsi in un’area sicura per regolare il percorso o rispondere a una chiamata rimane sempre l’opzione più sicura e conforme alla legge.
Un messaggio chiaro: sicurezza prima di tutto
Il nuovo Codice della Strada rappresenta un passo deciso verso la tutela degli automobilisti e dei pedoni. Anche se le regole possono sembrare eccessive, è innegabile che puntino a ridurre significativamente i rischi su strada. Quindi, la prossima volta che vi trovate al volante e vi squilla il telefono, pensateci due volte: quel gesto automatico potrebbe costarvi molto caro, in tutti i sensi.
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Cronaca Nera
Saman Abbas, la condanna che veniva da casa: la procura chiede l’ergastolo per tutta la famiglia
Nel processo d’appello per la morte di Saman Abbas, la Procura generale chiede una pena esemplare per tutti gli imputati. Il delitto, premeditato e “inumano”, avrebbe avuto come unico movente la libertà della ragazza di scegliere la propria vita. “Non era ribelle, voleva solo essere se stessa”.

«Un’esecuzione familiare, lucida e spietata, travestita da onore». Con queste parole la procuratrice generale Silvia Marzocchi ha chiesto alla Corte d’Assise d’Appello di Bologna la condanna all’ergastolo per tutti e cinque i familiari accusati dell’omicidio di Saman Abbas: padre, madre, zio e i due cugini. Una richiesta che arriva al termine di una requisitoria lunga, articolata, segnata dalla volontà di restituire piena verità e dignità alla ragazza uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021.
Saman aveva 18 anni. E voleva essere libera. Libera di scegliere con chi vivere, libera di rifiutare un matrimonio combinato, libera di amare. Una libertà che la sua famiglia ha vissuto come una colpa, una minaccia, un’onta da cancellare. Da punire. Per questo, secondo l’accusa, la giovane sarebbe stata vittima di una «condanna a morte pronunciata dall’intero nucleo familiare». Un delitto premeditato, eseguito con freddezza e determinazione. Con la partecipazione attiva — ribadisce la Procura — di tutti gli imputati.
La scena si consuma nel silenzio della campagna emiliana. Il corpo della ragazza verrà ritrovato solo 18 mesi dopo, interrato a pochi metri da un casolare. A scavare la fossa, secondo quanto emerso dal processo, sarebbero stati i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, inizialmente assolti. A commettere materialmente l’omicidio sarebbe stato lo zio, Danish Hasnain, che ha reso dichiarazioni spontanee in aula accusando nuovamente i due parenti: «Erano con me. Hanno scavato e seppellito il corpo». Una versione che trova riscontro anche nelle risultanze investigative: le celle telefoniche, i tracciamenti e le immagini li collocano tutti sulla scena. E soprattutto confermano la presenza di più persone al momento dell’occultamento del cadavere.
Già condannati all’ergastolo in primo grado, i genitori di Saman — Shabbar Abbas e Nazia Shaheen — tornano ora al centro del dibattimento con un profilo aggravato: secondo la procuratrice generale, è necessario ridefinire il loro ruolo non come meri fiancheggiatori, ma come architetti del delitto. Non solo non avrebbero fatto nulla per salvare la figlia, ma l’avrebbero accompagnata consapevolmente alla morte. Fino all’ultimo giorno, racconta Marzocchi, avrebbero mantenuto con lei un atteggiamento affettuoso, solo in apparenza: «Saman è stata immersa in una recita — ha detto — un copione scritto per rassicurarla mentre tutto era già deciso».
Particolarmente significativo, secondo l’accusa, è anche il ruolo del fratello minore. Il ragazzo, minorenne all’epoca dei fatti, aveva raccontato di essere stato testimone della tragedia e di essere stato costretto alla fuga. La Corte di primo grado aveva ipotizzato che proprio lui, con una denuncia ai carabinieri, potesse aver innescato la lite familiare culminata nell’omicidio. Una tesi che la Procura generale respinge con forza. Il fratello, dice Marzocchi, è una vittima secondaria: «Non ha mai contraddetto sé stesso, non aveva nulla da guadagnare e tutto da perdere. È stato sacrificato, isolato, sottoposto a una pressione insostenibile».
La requisitoria della pubblica accusa ha chiesto anche un anno di isolamento diurno per ciascuno dei cinque imputati. Una pena esemplare, non per vendetta, ma per ristabilire un ordine etico e giuridico: «Bisogna togliere a Saman — ha detto la pg — il ruolo di ragazza ribelle, trasgressiva. Non era sconsiderata. Non ha fatto nulla per meritare la morte. Ha solo chiesto di poter vivere secondo i suoi desideri legittimi».
La data fatale, quella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, coincide con un punto di non ritorno. Il 3 maggio, infatti, Saman sarebbe dovuta essere trasferita in una comunità protetta. La famiglia sapeva che le restavano pochi giorni da “controllare” la figlia. E la decisione di ucciderla, secondo la Procura, è maturata proprio per evitare che se ne andasse per sempre, sottraendosi alla loro autorità.
Nel cortile di casa, qualche giorno prima, c’è un video. Saman sorride, scherza con la madre. È un’immagine che oggi pesa come una condanna. Perché dimostra che lei, nonostante tutto, non avrebbe mai rinunciato alla sua famiglia, se solo le fosse stato permesso di viverla da persona libera. Ma quella libertà, per chi ha deciso la sua fine, era il vero scandalo da cancellare.
Storie vere
Altro che Sky e Netflix: nel Biellese riapre il cinema a luci rosse!
Chiuso dal 2020, nella provincia di Biella riapre il cinema a luci rosse Play Movie, rilanciato dal giovane imprenditore Flavio Tromboni (nome omen…). In un mondo dominato dallo streaming, la pellicola hot torna protagonista.

A Cossato riapre il cinema a luci rosse Play Movie, chiuso dal 2020 e ora rilanciato dal giovane imprenditore Flavio Tromboni. In un mondo dominato dallo streaming, la pellicola hot torna protagonista. Una scommessa retrò che potrebbe accendere l’economia locale, una scelta indubbiamente coraggiosa che mescola nostalgia – secondo alcuni – e spirito di comunità. Il Play Movie non è solo una sala a luci rosse: per i non-bacchettoni è un manifesto contro l’appiattimento digitale.
Ritorno al futuro… vietato ai minori
Nel cuore del Biellese, dove il tempo sembra scorrere più lento e i sabati pomeriggio profumano di nostalgia, riapre un’istituzione tanto discussa quanto amata: il Play Movie, storico cinema a luci rosse di Cossato. A riaccendere il proiettore è Flavio Tromboni, 25 anni, già noto per gestire il leggendario Roma Blu di Torino. La sua missione? Riportare il piacere offline al centro della scena.
Addio buffering, bentornato brivido
Mentre il resto del mondo si perde tra contenuti digitali, abbonamenti multipli e connessioni instabili, Cossato sceglie l’autenticità della sala buia, delle poltrone imbottite e dei sussurri imbarazzati tra sconosciuti. Con 200 posti a sedere, aria condizionata e un catalogo rigorosamente vietato ai minori, il cinema riapre le sue porte ogni weekend, dal sabato alla domenica, dalle 15 fino a mezzanotte. Altro che binge-watching, qui si parla di experience watching.
Turismo sess…ehm, culturale
Non è solo una questione di eros: il ritorno del Play Movie è anche un’occasione per ridare vita all’economia locale. Con appena due cinema porno attivi in tutto il Piemonte, e il più vicino a Piacenza, Cossato si candida a diventare una meta per appassionati del genere. Si parla già di car sharing tra province, birre post-film nei bar vicini e – perché no – una piccola rivoluzione nel turismo esperienziale.
Soft lighting, hard impact
La struttura è stata completamente ristrutturata: nuovo impianto audio, sedute comode, luci soffuse e un’atmosfera che strizza l’occhio ai gloriosi anni ’90 del cinema erotico. Un mix perfetto tra nostalgia e intrattenimento che, secondo Tromboni, “può attrarre spettatori da tutto il Nord Italia”. A guidarlo, non solo il desiderio (in ogni senso del termine), ma una visione culturale ben chiara: “La gente ha bisogno di tornare a vivere le cose insieme. Anche il piacere”.
Kant o “La supplente fa l’orale”?
Naturalmente, non mancano le polemiche. C’è chi grida al degrado culturale e chi invoca proposte più “elevate”. Ma la verità è semplice: tra una sala vuota con un documentario sulla dialettica hegeliana e una sala piena per un titolo vintage dai doppi sensi espliciti, è chiaro quale delle due fa girare (l’economia).
Il biglietto? Costa meno di un abbonamento streaming
Il prezzo d’ingresso è competitivo, e l’esperienza è irripetibile. Perché il Play Movie non è solo un cinema: è un salto temporale, una provocazione e, per molti, un appuntamento fisso con il passato… e con il desiderio
Cronaca
“Pronto, Presidente?”. Numeri di Stato a portata di plug-in: la voragine della cybersicurezza italiana
Bastano 50 euro e un’estensione per browser per ottenere i contatti privati di Mattarella, Meloni e migliaia di funzionari pubblici. Andrea Mavilla, esperto informatico, scopre una falla clamorosa. Nessun hacker, nessun dark web: solo un’Italia che ignora i propri rischi digitali.

È bastato un plug-in. Nessuna password violata, nessun dark web, nessuna rete sotterranea. Solo un’estensione del browser, scaricabile da chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la rete. E così, in pochi clic e con un abbonamento mensile da circa cinquanta euro, è possibile mettere le mani su qualcosa che dovrebbe essere, per definizione, intoccabile: i numeri privati dei vertici dello Stato italiano. Non i telefoni di servizio, non quelli visibili sugli organigrammi ufficiali, ma quelli personali, utilizzati per comunicazioni riservate con amici, parenti, collaboratori stretti.
A scoprire questa falla spaventosa è stato Andrea Mavilla, esperto di informatica e cybersecurity, con un passato in Apple e anni di esperienza nel settore della protezione dei dati. Mentre analizzava alcune piattaforme di lead generation — quei siti specializzati nella raccolta e nella rivendita di contatti — si è imbattuto in un’anomalia inquietante: accedendo da un account standard, gli venivano mostrati nomi, email e numeri di cellulare di politici, dirigenti pubblici, ufficiali delle forze dell’ordine. Non frammenti sparsi, ma una vera mappa della vulnerabilità istituzionale italiana.
Le piattaforme in questione non sono illegali. Offrono servizi perfettamente registrati, con sede in Paesi come Israele, Stati Uniti e Russia. Si rivolgono a chi lavora nel marketing o nel B2B, promettendo accesso diretto a potenziali clienti qualificati. In realtà, attraverso i plug-in installati sui browser, questi servizi aprono varchi inimmaginabili. Basta visitare il profilo LinkedIn di una persona per ricevere, in tempo reale, il numero di telefono e l’indirizzo email che l’utente ha magari inserito altrove in rete, dimenticandosi di aver dato il consenso al trattamento dei dati.
Nel caso segnalato da Mavilla, i profili colpiti non sono solo quelli di imprenditori o manager: ci sono anche i numeri personali di Sergio Mattarella, Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, Guido Crosetto. E poi, ancora, quelli di migliaia di funzionari dello Stato, dipendenti di ministeri, agenti della Polizia di Stato, militari dell’Arma e della Guardia di Finanza. Un database parallelo, disponibile alla luce del sole. Nessuna rete criminale. Nessun software spia. Solo la disattenzione di un sistema incapace di controllare la dispersione dei dati digitali.
Mavilla ha cercato di segnalare il problema usando tutti i canali informali che aveva a disposizione. Ha scritto direttamente al ministro dell’Interno Piantedosi, ha contattato la vicepresidente della CIA Juliane Gallina tramite LinkedIn, ha cercato un contatto con l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Risposte? Poche. Laconiche. E spesso sminuenti. La frase più emblematica resta quella attribuita a un funzionario dell’Acn: “Bah, a noi pare una bufala”.
Ma non era una bufala. I dati erano lì, esposti, verificabili. Tanto che Mavilla — con l’aiuto di altri colleghi — è riuscito a confrontarli con numeri e indirizzi conosciuti, confermando la loro autenticità. E quando la questione è finalmente arrivata all’attenzione della Polizia postale, si è deciso di avviare un’indagine vera e propria, che ora proverà a risalire alle fonti e alle modalità con cui queste informazioni sono state raccolte, aggregate e distribuite.
Il punto è che, spesso, siamo noi stessi a mettere a rischio i nostri dati. Clicchiamo “accetto” su moduli online, autorizziamo accessi incondizionati, forniamo recapiti in cambio di uno sconto o di un eBook gratuito. Tutte queste tracce digitali finiscono in banche dati che si scambiano, si fondono, si vendono. E quando chi si occupa della sicurezza nazionale liquida con sufficienza una simile segnalazione, è legittimo domandarsi se sia l’arroganza o la sottovalutazione il vero punto debole del sistema.
Il caso sollevato da Andrea Mavilla non è una semplice storia di privacy violata. È la cartina di tornasole di un problema strutturale: l’assenza di una cultura della cybersicurezza che metta al centro non solo la protezione dei dati, ma anche la prontezza nell’ascoltare chi suona un campanello d’allarme. Stavolta è andata “bene”: i dati non sono finiti in mano a ricattatori, spie o gruppi criminali. Ma la porta è aperta. E lo è stata per troppo tempo, senza che nessuno se ne accorgesse.
Chi controlla la nostra sicurezza digitale? E soprattutto, chi ascolta chi la scopre in pericolo?
-
Gossip1 anno fa
Elisabetta Canalis, che Sex bomb! è suo il primo topless del 2024 (GALLERY SENZA CENSURA!)
-
Cronaca Nera9 mesi fa
Bossetti è innocente? Ecco tutti i lati deboli dell’accusa
-
Speciale Olimpiadi 20248 mesi fa
Fact checking su Imane Khelif, la pugile al centro delle polemiche. Davvero è trans?
-
Sex and La City11 mesi fa
Dick Rating: che voto mi dai se te lo posto?
-
Speciale Grande Fratello7 mesi fa
Helena Prestes, chi è la concorrente vip del Grande Fratello? Età, carriera, vita privata e curiosità
-
Speciale Grande Fratello7 mesi fa
Shaila del Grande Fratello: balzi da “Gatta” nei programmi Mediaset
-
Gossip10 mesi fa
È crisi tra Stefano Rosso e Francesca Chillemi? Colpa di Can?
-
Moda e modi8 mesi fa
L’estate senza trucco di Belén Rodriguez