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Se arrivasse l’Apocalisse, dove possiamo scappare per ricominciare? Forse…

Di cosa avremmo bisogno per affrontare condizioni “apocalittiche”? Dove potremmo rifugiarci e quali sono i Paesi al mondo dove poter ricominciare una nuova vita?

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    Avete mai pensato a come sopravvivere a un’apocalisse? E ancora. In che Paese è meglio rifugiarsi per ricominciare una nuova vita? L’apocalisse come ce la immaginiamo potrebbe essere la causa di un attacco atomico, oppure una nuova e devastante epidemia. Di cosa avremmo bisogno se dovessimo affrontare condizioni “apocalittiche”? E soprattutto quali sono i Paesi al mondo dove poter ricominciare una nuova vita?

    Cosa si intende per apocalisse?

    L’apocalisse è la distruzione del mondo, come predetto nel libro biblico dell’Apocalisse. Una distruzione totale causata da una guerra o da un disastro naturale. La paura della catastrofe è sempre stata presente nella società umana, ed è per questo che molte persone quasi tutti i giorni cercano istruzioni su come sopravvivere.

    Cosa mi porto…

    È meglio preparare tutto prima in modo che nel caso si dovesse scappare da un momento all’altro sappiamo dove trovare le cose necessarie almeno per sopravvivere i primi giorni. Certo chi ha costruito un bunker l’avrà già organizzato, arredato e provvisto di tutto lo stretto necessario. Dall’acqua al generatore per la luce, dalla benzina ai medicinali, dagli alimentari in scatola, agli indumenti per avere scorte sufficienti per sopravvivere da 30 a 90 giorni.

    Un kit indispensabile per almeno tre mesi

    Da non scordare anche torce e un numero sufficiente di batterie e fiammiferi. Potrebbero servire, occhiali con filtri da sole e così anche creme per proteggere la nostra pelle. Molta vitamina C, una mappa, un apriscatole, un fornello da campeggio e del gas propano, un ‘ascia, una vanga, sacchi spazzatura, un kit di pronto soccorso, del nastro adesivo, stivali e un filtro per l’acqua. E poi ancora candele, asciugamani, termometri, antivirali. Ma la lista potrebbe davvero non finire più.

    Una volta che vi sarete piazzati in un bunker o in un luogo sicuro e incontaminato è bene cercare di garantire determinati standard igienici. Questo nel caso di un disastro lieve, contenibile, quasi riparabile. Ma se il mondo intero è minacciato si tratterà solo di sopravvivere le liste contano poco. La cosa più importante è disporre di acqua, cibo, vestiti e attrezzi a sufficienza.

    Ma se dobbiamo scappare dove si va?

    Ecco i 5 Paesi del mondo dove nascondersi e sopravvivere all’apocalisse. Utilizzando i dati della Global Adaptation Initiative dell’Università di Notre Dame, i ricercatori del Global Sustainability Institute dell’Università di Anglia Ruskin in Inghilterra hanno classificato i 20 paesi meno vulnerabili in base a tre criteri principali: quanta terra viene utilizzata per l’agricoltura per sostenere la popolazione attuale; quanto è vicino il paese ad altre aree altamente popolate; e se dispone di energia rinnovabile e di capacità manifatturiera. Utilizzando questi parametri, i coautori della ricerca – pubblicata su peer-reviewed SustainabilityNick King e Aled Jones hanno trovato 5 luoghi particolarmente adatti al collasso globale, o a ciò che chiamano “de-complessificazione”.

    Nuova Zelanda

    Situata a circa 2.800 miglia dall’equatore, la Nuova Zelanda è il Paese più fresco rispetto ad altri in molte regioni del mondo. Un fattore positivo nel caso di una apocalisse che prevedesse un forte aumento della temperatura dovuto al cambiamento climatico. Il 40% dell’approvvigionamento energetico primario deriva da fonti energetiche rinnovabili . Inoltre può coprire il 75% del suo fabbisogno energetico. Il Paese più vicino è l’Australia, il che renderebbe più difficile da raggiungere per i rifugiati globali provenienti da tutto il mondo in caso di un’apocalisse con risorse scarse. Nel caso del Covid, per esempio chiudendo le frontiere ha subito solo 26 decessi. Una curiosità: il miliardario Peter Thiel ha già acquistato diverse proprietà in Nuova Zelanda.

    Islanda

    Al secondo posto della lista, l’Islanda ospita un’abbondanza di fonti energetiche naturali e rinnovabili sotto forma di centrali geotermiche e idroelettriche. E’ molto vicino al Polo Nord quindi con un clima molto più fresco rispetto ad altre regioni del pianeta. I terreni coltivabili dovrebbero continuare a essere sostenibili mentre il clima continua a riscaldarsi.
    Anche se il suo territorio è ghiacciato e inospitale il paese coltiva più della metà dei suoi prodotti con energie rinnovabili. Molti agricoltori utilizzano serre e vapore geotermico naturale per “migliorare attivamente la fotosintesi” nelle loro piante. L’Islanda è sede di numerose attività di pesca lungo le sue coste, che consentono di avere cibo facilmente disponibile in caso di una apocalisse totale. Il Global Sustainability Institute, sostiene che la nazione ha diverse “condizioni di partenza favorevoli” ed è pronta a sopravvivere a un disastro.

    Regno Unito

    Il Regno Unito ha molti terreni agricoli disponibili, un clima con temperature più miti e una grande quantità di precipitazioni che lo rendono una regione giusta per ricostruire la società. Inoltre, l’area non è regolarmente colpita da grandi disastri naturali, il che fa ben sperare per le sue possibilità di sopravvivenza. In caso di apocalisse tra gli svantaggi del Regno Unito c’è la sua quantità di territorio piuttosto limitata e la sua popolazione sempre più numerosa. Il fabbisogno energetico della popolazione del Regno Unito è abbastanza consistente da costituire un problema in caso di una apocalisse. Infatti quasi la metà dell’energia del Regno Unito proviene da combustibili fossili e dalla produzione di energia nucleare, il che rende difficile adattarsi ai cambiamenti delle catene di approvvigionamento. Circa il 42% dell’energia del paese proviene da energie rinnovabili, una percentuale in crescita man mano che la nazione attinge alle risorse eoliche non sfruttate.

    Australia

    L’Australia è l’unico Continente in questa lista. La sua posizione e la sua enorme estensione terrestre – praticamente equivalente all’Europa intera – ne fanno un altro buon posto per superare l’apocalisse. Ogni sua regione vanta un clima e un temperato diversi, che consentono una maggiore biodiversità agricola e animale. Lo studio prevede che il cambiamento climatico avrà un grande impatto sull’Australia. Le regioni piovose vedranno più precipitazioni, i deserti riceveranno meno acqua e così via. Gli alberi diventeranno sempre più secchi a causa delle condizioni calde e aride hanno già provocato ripetuti incendi nel continente. La regione della Tasmania, uno stato insulare al largo della costa australiana, deve far fronte a minori effetti dei cambiamenti climatici e utilizza già numerose centrali idroelettriche ed eoliche. Un quarto dell’isola è utilizzato in campo agricolo una percentuale che per gli studiosi potrebbe se ce ne fosse bisogno aumentare.

    Irlanda

    L’intera isola d’Irlanda è al quinto posto nella lista dei candidati. Una combinazione tra l’Irlanda del Nord – che fa parte del Regno Unito – e della Repubblica d’Irlanda. Il clima è simile a quello del Regno Unito con molte precipitazioni e terreno fertile. La sua bassa popolazione determina una minore domanda di energia. Sebbene circa un terzo dell’energia irlandese provenisse da fonti rinnovabili, la regione continua ad espandere le sue iniziative per creare energia pulita attraverso la generazione eolica e gli impianti idroelettrici. La sua bassa domanda di energia e l’aumento delle fonti di energia rinnovabile costituiscono un luogo promettente per un bunker apocalittico.

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      Società

      Babbo Natale dorme per strada: l’arte che svela gli “invisibili” di Milano

      L’installazione di Progetto Arca, firmata dal street artist Andrea Villa, compare in quattro fermate del tram per accendere i riflettori sui 17mila senzatetto che ogni notte cercano riparo in città. E la reazione dei passanti racconta una Milano che non ha smesso di vedere.

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      Babbo Natale dorme per strada

        Sotto la pensilina di piazza Lega Lombarda, dove ogni giorno migliaia di persone afferrano il tram al volo, un “clochard” giace rannicchiato tra cartoni logori. Ma basta un secondo sguardo per rendersi conto che quel senzatetto non è un uomo qualunque: il cappuccio rosso, la barba folta, il vestito iconico rivelano l’identità più improbabile del periodo natalizio. È Babbo Natale. Un Babbo Natale senza casa.

        Non è una provocazione casuale: fa parte della campagna “Quest’anno il Natale sei tu”, presentata da Fondazione Progetto Arca – realtà impegnata da trent’anni nell’aiuto a chi vive in strada – con il supporto dell’assessorato al Welfare del Comune di Milano. L’opera porta la firma di Andrea Villa, street artist noto per installazioni urbane dal taglio ironico e sociale.

        L’intento è chiaro: rendere visibile chi resta ai margini, chi si incontra ogni giorno e ogni giorno si finge di non vedere. A dirlo è anche la frase in grandi caratteri che accompagna il manichino: “La povertà può colpire chiunque”. Anche chi, nella fantasia collettiva, è simbolo di gioia, regali e famiglia: una scelta volutamente disturbante, che ribalta la narrativa delle feste e invita a fare i conti con una fragilità sempre più diffusa.

        L’opera non è isolata. Altre tre installazioni sono state collocate in punti nevralgici della città: via De Amicis 7, via Ariosto 4 e piazza Cinque Giornate 6. Quattro presenze silenziose, distese su letti di cartone per raccontare con forza ciò che spesso scivola lontano dagli occhi. Secondo le realtà sociali che operano sul territorio, infatti, sono circa 17mila le persone che a Milano vivono in condizioni di grave emarginazione, senza un alloggio stabile o un accesso regolare a cure e servizi.

        «Un lavoro, oggi, non basta più a garantire sicurezza e serenità» spiegano i promotori dell’iniziativa. Una realtà che Progetto Arca conosce bene: ogni sera porta pasti caldi e assistenza a chi vive all’aperto, quando cala la temperatura e aumenta il rischio per la salute. «Non esistono persone invincibili – aggiungono –. Le difficoltà degli altri potrebbero un giorno essere le nostre. Per questo, come comunità, dobbiamo scegliere di guardare e agire».

        La scelta di Santa Claus non mira a scioccare, ma a risvegliare empatia. Ne è la prova ciò che è accaduto nelle prime ore di esposizione: alcuni passanti, convinti che si trattasse di un senzatetto vero, hanno tentato di riscaldarlo, coprendogli il piede con una coperta per proteggerlo dal freddo. Un gesto piccolo ma enorme, che racconta una parte di Milano fatta non solo di fretta, ma anche di attenzione e cura.

        La povertà, oggi, è “democratica”: attraversa età, storie e percorsi di vita. Colpisce anche chi ha un reddito, chi un tempo non immaginava di poter perdere tutto. E a Natale – la festa della famiglia, della casa piena, della tavola imbandita – la distanza tra chi è al caldo e chi sopravvive sull’asfalto diventa ancora più stridente.

        Per questo il messaggio dell’iniziativa è tanto semplice quanto potente: il Natale non è un privilegio, ma una responsabilità comune. Guardare Babbo Natale per terra, steso tra cartoni e sacchi di plastica, significa guardare negli occhi un problema che non sparisce con le luci delle feste. E capire che, come recita la campagna, “quest’anno il Natale sei tu”: tu che vedi, tu che puoi scegliere di non voltarti dall’altra parte.

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          Tempo libero ed interessi

          Il retrogaming non è nostalgia: l’analisi di un veterano dell’informazione videoludica

          Raffaele “Raffo” Sogni, pioniere del giornalismo videoludico italiano, analizza l’esplosione del retrogaming: non solo nostalgia, ma preservazione storica e scontro tra passione autentica e speculazione di mercato. Come i classici continuano a influenzare l’industria di oggi — e perché il futuro del videogioco passa dall’hardware del passato.

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          retrogaming

            Raffaele Sogni, conosciuto da tutti come Raffo, è una delle voci più autorevoli del
            giornalismo videoludico italiano. Storico redattore di The Games Machine, caporedattore
            nei primi anni 2000 di Official Nintendo Magazine e volto noto dei programmi TV
            GameTime prima e di Crossover poi, dedicati alla cultura dei videogiochi, Raffo ha
            attraversato oltre tre decenni di evoluzione del settore raccontandone successi,
            innovazioni e derive. Alla Milan Games Week 2025, dove è stato ospite di diversi panel, ha
            portato la sua esperienza per approfondire un tema tornato centrale negli ultimi anni: il
            retrogaming, non solo come nostalgia, ma come fenomeno culturale, economico e sociale.
            Con lui analizziamo il presente del videogioco guardando al suo passato, e proviamo a
            capire come stanno cambiando pubblico, mercato e industria.

            Molti associano il retrogaming alla nostalgia. Secondo te è solo un tuffo nel passato o rappresenta qualcosa di più profondo?

            Ritengo che ridurre il retrogaming a semplice nostalgia sia estremamente limitativo. Sebbene la nostalgia sia innegabilmente la scintilla iniziale per molti, le ragioni per cui questo interesse persiste e si approfondisce sono molto più strutturate.
            È un po’ come apprezzare il cinema muto o la musica classica dell’800: non lo si fa solo per avere un rapporto con il passato, ma per il valore intrinseco dell’opera.
            Giocare a un titolo degli anni ’80 o ’90 è come leggere un libro o guardare un film di quell’epoca.
            Ogni gioco è una capsula del tempo che riflette la tecnologia, l’estetica e persino i valori culturali del suo periodo. Permette di comprendere l’evoluzione del linguaggio videoludico, vedendo come sono nate certe convenzioni di genere (i platform, gli sparatutto, i picchiaduro) e come si sono sviluppate nel tempo. È un modo per studiare la storia del medium in prima persona.

            I giovani scoprono i giochi del passato tramite porting, remake o collezioni digitali. Quanto conta la preservazione digitale nella cultura videoludica moderna?

            In un’era dominata dal digitale, dove i giochi possono essere rimossi dagli store online da un giorno all’altro, il possesso fisico di una cartuccia, di un manuale o di una confezione originale assume un valore tangibile e fondamentale. Il collezionismo di retrogame non è solo un hobby, ma anche un atto di preservazione storica. I collezionisti, con la loro passione, contribuiscono a salvare dall’oblio opere che altrimenti andrebbero perdute.

            Il mercato del retro è cresciuto a dismisura, con prezzi folli per console e titoli rari. È una passione o un business che rischia di snaturare tutto?

            Il mercato ha raggiunto in alcuni casi valutazioni che vanno oltre la logica del puro collezionismo per passione. Stiamo assistendo a una vera e propria “finanziarizzazione” del retrogame. Va però fatta una distinzione: molti degli acquirenti che spendono cifre molto elevate non sono videogiocatori. Sono investitori che, vedendo un trend di crescita costante, puntano su questi oggetti come farebbero con un quadro o un orologio di lusso, scommettendo su una futura rivalutazione.
            Fortunatamente, la stragrande maggioranza dei giochi retro è ancora acquistabile a prezzi
            ragionevoli e l’esperienza del gioco originale vintage, che è il fulcro della passione, rimane alla
            portata di quasi tutti. In definitiva, vedo due mercati distinti che usano lo stesso nome. Da un lato, un mercato speculativo di lusso per pochi, che tratta i videogiochi come prodotti d’investimento. Dall’altro, una community globale e appassionata di giocatori e collezionisti che si concentra sull’esperienza ludica e sulla preservazione storica, utilizzando hardware originale.

            Secondo te i remake e remaster stanno rispettando l’identità dei titoli originali o l’industria sta rivalutando il proprio passato solo per motivi commerciali?

            Se devo essere onesto, la risposta propende decisamente verso la seconda ipotesi: l’industria sta vampirizzando il proprio passato principalmente per avversione al rischio. E nel farlo, spesso fallisce nel preservare l’anima dell’opera originale.
            Molti classici traevano la loro forza proprio dai limiti tecnici. La nebbia di Silent Hill, i fondali pre-renderizzati di Resident Evil, la palette cromatica limitata dei giochi a 8 o 16 bit: non erano difetti, erano scelte estetiche imposte dall’hardware che gli sviluppatori trasformavano in linguaggio artistico.
            I remake sono prodotti commerciali validi per chi non ha vissuto quell’epoca o non vuole scontrarsi con barriere tecnologiche. Ma se parliamo di identità, di visione artistica e di esperienza pura, il supporto originale vince su tutta la linea.
            L’industria sta cercando di riscrivere la storia con una calligrafia più moderna e leggibile, ma nel processo sta perdendo la poesia del testo originale. Se si vuole capire davvero perché un gioco è diventato leggenda, bisogna procurarsi l’hardware per cui è stato concepito.

            Parliamo di hardware: quali sono le console simbolo del retrogaming che continueranno a segnare anche le future generazioni?

            Verrebbe da dire tutte, perché ognuna possiede delle caratteristiche uniche che testimoniano il loro tempo, diciamo che mettendosi nei panni di un aspirante collezionista, inizierei da 3 console fondamentali: NES, Mega Drive e PlayStation.
            Il NES verrà (e viene) studiato come il padre del modello di business moderno. Ha introdotto il
            concetto di licenza rigorosa per le terze parti e ha standardizzato l’interfaccia umana con il D-pad (la croce direzionale), seppur sia nato coi Game & Watch. Le future generazioni di designer guarderanno al NES per capire il level design nella sua forma più pura: limitazioni hardware che costringevano a una creatività meccanica perfetta, tuttora base di ogni corso di game design.
            Il Sega Mega Drive non è stato solo una console: è stato l’agente del caos che ha trasformato
            l’industria da un “monopolio giocattoloso” a un business d’intrattenimento aggressivo e maturo.
            Prima del Mega Drive, Nintendo controllava circa il 90% del mercato americano e giapponese,
            dettando prezzi e contenuti. Il Mega Drive ha dimostrato che il monopolio poteva essere interrotto. Con una quota di mercato che in occidente arrivò a superare il 50% nei primi anni ’90, SEGA ha costretto l’industria a evolversi, abbassando i costi di licenza per le terze parti e creando una concorrenza reale di cui hanno beneficiato i consumatori.
            Se il NES ha salvato l’industria dopo il crash del mercato videoludico del 1983, il Mega Drive l’ha resa competitiva.
            La prima PlayStation non ha solo introdotto il 3D di massa; ha cambiato il supporto fisico (seppur non sia stata la prima console a farlo). Passando dalla cartuccia al CD-ROM. È stata il “punto zero” del videogioco moderno inteso come esperienza multimediale. L’inclusione di filmati in full-motion video e colonne sonore orchestrali ha attratto un pubblico generalista, sdoganando il videogioco da “giocattolo” a prodotto di intrattenimento di massa al pari del cinema. Ancora oggi (anche se in effetti è un po’ fastidioso da sentire) per molti PlayStation è sinonimo di videogiochi. Le generazioni future vedranno nella PS1 il momento esatto in cui la narrazione complessa è diventata di massa.
            Bonus track. Se avete una discreta disponibilità economica (600 euro a salire), il Vectrex merita sicuramente di essere preso in considerazione: è una “cattedrale nel deserto” tecnologica, un fallimento commerciale che, paradossalmente, è invecchiato meglio di qualsiasi altra console della sua epoca (primi anni 80). Il Vectrex, unica console da casa mai prodotta con monitor integrato, è l’anti-emulazione. Mentre si può giocare a Super Mario su un PC con un’esperienza al 99% fedele, non è possibile emulare un Vectrex su uno schermo LCD od OLED. La “fosforescenza” delle linee che decadono, il ronzio del monitor CRT verticale integrato e il design ancora oggi accattivante, rendono questa console un pezzo fondamentale in una collezione.

            Guardando al futuro, pensi che i giochi di oggi diventeranno oggetti di culto come quelli del passato? Oppure l’era digitale renderà tutto più effimero?

            La risposta breve è: no, i giochi di oggi non diventeranno oggetti di culto nello stesso modo fisico del passato, ma il “culto” sopravviverà trasformandosi in una lotta per la preservazione.
            Con l’imminente esclusione dei prodotti fisici dai negozi, il “Santo Graal” non sarà una copia fisica rara, ma un file giocabile di un titolo rimosso dagli store. Pensiamo a P.T. (il teaser di Silent Hills): è già oggi un oggetto di culto digitale. La console che lo ha installato vale oro non per l’hardware, ma perché è l’unico “contenitore” rimasto di un’esperienza cancellata. La rarità futura sarà definita dal delisting (la rimozione dagli store), non dalla tiratura di stampa.
            Proprio perché tutto è effimero, sta nascendo un movimento di “resistenza” che definirà il culto del futuro. Iniziative come Stop Killing Games, che nel 2025 ha superato il milione di firme in
            Europa per chiedere leggi che impediscano di rendere ingiocabili i prodotti acquistati, dimostrano che i giocatori stanno prendendo coscienza. Insomma l’uomo vuole mantenere la memoria del suo passato e in qualche modo riuscirà a farlo anche con i videogiochi.

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              Auto e moto

              Toyota Aygo X Full Hybrid debutta a Milano: la city car si reinventa con tecnologia sostenibile e un evento esclusivo sotto la Torre Branca

              Il debutto della nuova Aygo X Full Hybrid segna un passaggio strategico per Toyota: una motorizzazione avanzata, pensata per la città e capace di coniugare agilità, comfort ed efficienza. L’anteprima milanese ha riunito piloti, influencer e i vertici Toyota Italia

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                Milano ha fatto da cornice al debutto italiano della nuova Toyota Aygo X Full Hybrid, presentata in anteprima al Just Me, il locale incastonato ai piedi della Torre Branca e noto per essere uno dei punti più vivaci della movida cittadina. Una scelta che racconta fin da subito lo spirito della vettura: urbana, agile, moderna e pensata per un pubblico che cerca stile senza rinunciare alla sostenibilità.

                Una prima assoluta per il segmento A
                La Aygo X Full Hybrid è la prima full hybrid in Europa nel suo segmento, un traguardo che conferma l’impegno di Toyota nel rendere la tecnologia elettrificata sempre più accessibile. La nuova compatta porta nell’ambiente urbano una guida più fluida, consumi ridotti ed emissioni contenute, mantenendo la personalità vivace che ha reso il modello una piccola icona negli anni.

                Un evento immersivo nel cuore di Milano
                Durante la serata, gli ospiti hanno potuto ammirare la vettura in un allestimento pensato per esaltarne i dettagli e il design. Presenti Mariano Autuori, Direttore Commerciale di Toyota, ed Ennio Liberali, Direttore Vendite, insieme ai rispettivi team. Accanto a loro, volti del motorsport e dei social come Elli Vignudelli e Gian Maria Gabbiani, oltre a creator e influencer del mondo automotive. L’evento, organizzato con i tre dealer lombardi Autotorino, Spotorno e Sefcar, ha sottolineato il ruolo centrale del territorio per la rete Toyota.

                L’organizzazione tra comunicazione ed esperienza
                La firma dell’evento è di SocialWave Agency, affiancata da Temptation Glam, Visionaire Events e dal PR Antony Russo. Il format ha unito presentazione prodotto, entertainment e storytelling, trasformando l’anteprima in un percorso immersivo pensato per valorizzare la nuova Aygo X Full Hybrid attraverso una serata che dialoga con l’energia della città.

                Un lancio che guarda al futuro della mobilità
                Con questo debutto, Toyota rinnova la sua visione: rendere la tecnologia ibrida un punto di riferimento per il pubblico urbano. La Aygo X Full Hybrid arriva come risposta concreta a un’esigenza crescente di mobilità sostenibile, senza rinunciare alla praticità e allo stile. Milano, con la sua capacità di fondere innovazione e lifestyle, è stata il palcoscenico ideale per accogliere la nuova protagonista del segmento A.

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