Cucina
Il grande bluff del gourmet: piatti poveri che ora costano un patrimonio
Farinata, trippa, cacio e pepe e pane e panelle: piatti della fame che oggi trionfano nei menù dei ristoranti gourmet. Ma dietro l’estetica minimal e le posate in argento, resta una domanda: è giusto pagare 18 euro per ciò che un tempo si mangiava con le mani sul marciapiede?
Una volta c’erano le osterie. Quelle vere. Dove il vino si versava nei bicchieri di vetro spesso, il pane era duro da far paura e la trippa costava meno di un pacco di gomme da masticare. Poi sono arrivati loro: gli chef stellati con la nostalgia selettiva, i bistrot urbani col design da show room, le cucine “di territorio” che hanno dimenticato il prezzo del territorio. E così ci siamo ritrovati a pagare 14 euro per un piatto di polenta, 12 per un assaggio di farinata “rivisitata” e 18 euro per tre listarelle di trippa “alla moda del quartiere”.
La cucina povera, quella nata per necessità, è diventata la nuova miniera d’oro del gourmet contemporaneo. Il miracolo? Servire cibo da contadini con la retorica del comfort food e l’impiattamento da laboratorio di architettura.
Prendiamo ad esempio il pane e panelle. In Sicilia si mangia in piedi, bruciandosi le mani e imprecando felici. Adesso invece te lo servono su pietra lavica, con coulis di finocchietto e arie al limone di Amalfi. Prezzo? “Dodici, ma pane fatto in casa.” Grazie tante, lo era anche nel 1870.
E vogliamo parlare della pasta e patate? Un tempo piatto unico di chi non aveva altro che una cipolla e un mozzico di provola. Oggi la trovi con chips croccanti e profumi d’oriente, impiattata con le pinzette. Con buona pace delle nonne, che te la buttavano nel piatto con la mestolata larga.
Poi c’è il trionfo dei piatti “poveri ma dignitosi”: la zuppa di ceci, la farinata, la minestra riscaldata. Presentati come esperienze sensoriali, “ritorni all’essenza”, “poesia del cucchiaio”. Il cucchiaio è in acciaio satinato. La poesia, spesso, è quella del conto.
Il massimo si tocca con la cacio e pepe, già trasformata in simbolo di orgoglio culinario nazionale. Oggi fa pendant col vino naturale e si accompagna a spiegoni sul pecorino invecchiato “sotto grotta”. Ma sotto grotta una volta ci viveva chi la cacio e pepe la faceva davvero, col formaggio buono ma senza troppe cerimonie.
Non si tratta di difendere la nostalgia a tutti i costi. È sacrosanto che la cucina si evolva, che certi sapori tornino a vivere. Ma c’è un limite tra omaggio e appropriazione, tra riscoperta e furto con destrezza ai danni del popolo affamato.
Perché se un piatto nasce per i poveri, va benissimo celebrarlo. Ma non si può venderlo a peso d’oro. Anche perché, come diceva il cuoco della mensa operaia: “Se vuoi fare il ricco con la minestra, aggiungi l’acqua e non le bolle di tartufo”.