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Cucina

Morzello: storia, proprietà nutrizionali e variazioni di un classico piatto calabrese

Questo piatto tipico di Catanzaro è una zuppa piccante a base di interiora di vitello, pomodoro e peperoncino, solitamente servita con il “pitta”, un tipo di pane circolare. È un piatto forte e calorico, perfetto per le giornate fredde.

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    Il Morzello, noto anche come Morzeddhu, è un piatto simbolo della città di Catanzaro e rappresenta una delle espressioni più autentiche della cucina calabrese. La sua origine risale a secoli fa, quando la cucina contadina era basata sull’uso completo degli animali, senza sprechi. Infatti, il morzello è un piatto “di recupero” che si preparava con le interiora di vitello, cucinate lentamente in una salsa di pomodoro, spezie e peperoncino.

    Storia del Morzello

    Il Morzello ha radici profonde nella tradizione popolare. Nato come piatto per i lavoratori, veniva consumato principalmente in inverno, quando le famiglie macellavano gli animali e utilizzavano ogni parte disponibile. Le interiora, che difficilmente venivano vendute, diventavano protagoniste di una zuppa saporita e piccante, accompagnata dal “pitta,” un tipo di pane locale dalla forma circolare, che serviva da contenitore per il piatto stesso. Non era raro che il Morzello fosse consumato nelle prime ore del mattino dai lavoratori di Catanzaro, dopo lunghe giornate di lavoro nei campi.

    Ingredienti principali e preparazione

    Gli ingredienti tradizionali del Morzello sono le interiora di vitello, che includono polmone, cuore e trippa, tagliate a pezzi piccoli (da cui il nome Morzello, che deriva dal dialetto “morzha”, cioè “morsicare”). Questi vengono cotti in una salsa di pomodoro con cipolla, peperoncino, alloro, e una buona dose di spezie come il peperoncino, elemento essenziale della cucina calabrese.

    Proprietà alimentari

    Il Morzello è un piatto molto nutriente e calorico, perfetto per affrontare le fredde giornate invernali. Le interiora sono ricche di proteine e ferro, importanti per il corretto funzionamento dell’organismo, in particolare per il trasporto dell’ossigeno nel sangue. La presenza del pomodoro aggiunge antiossidanti, come il licopene, che aiutano a proteggere le cellule dai danni causati dai radicali liberi. Tuttavia, va consumato con moderazione poiché, come molti piatti tradizionali, è piuttosto ricco di grassi e colesterolo, data la natura degli ingredienti utilizzati.

    Variazioni del Morzello

    Sebbene la versione classica del Morzello sia fatta con le interiora di vitello, ci sono diverse varianti che si sono sviluppate nel corso degli anni, soprattutto per adattarsi ai gusti moderni o alle preferenze locali. Alcune versioni sostituiscono le interiora di vitello con carne di maiale, soprattutto la trippa. In altre varianti, invece, si usa carne di agnello o capretto, che conferisce al piatto un sapore più delicato.

    In alcune interpretazioni contemporanee, per rendere il piatto più “leggero” o adatto a chi preferisce evitare le interiora, si opta per tagli di carne più “nobili”, pur mantenendo l’intensità dei sapori calabresi grazie al peperoncino e alle spezie.

    Il Morzello oggi

    Nonostante la sua origine umile, il Morzello è oggi un piatto apprezzato anche nei ristoranti più raffinati che vogliono riproporre la tradizione calabrese in chiave moderna. Viene servito sia nella tradizionale “pitta” di pane che in ciotole, accompagnato da un bicchiere di vino rosso robusto, per esaltare ulteriormente i sapori intensi e piccanti del piatto.

    Il Morzello rappresenta non solo un alimento, ma un simbolo culturale e storico della Calabria, capace di unire tradizione e convivialità, tipiche delle terre del Sud Italia.

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      Cucina

      La rivoluzione del tavolo silenzioso: ecco dove mangiare in pace (finalmente)

      Per chi vuole cenare senza ascoltare le telefonate altrui, evitare l’intrattenimento a tutto volume o semplicemente godersi un momento di vera conversazione, nascono i tavoli silenziosi. E diventano un trend globale. Perché il vero lusso, oggi, è non dover sentire niente.

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        Avete presente la scena: ristorante elegante, piatti curati, luci soffuse. E al tavolo accanto, un tizio che urla al telefono con la madre. O una comitiva che ride a volume da stadio, mentre sullo sfondo lo speaker annuncia “karaoke night”. La cena romantica si trasforma in sopravvivenza acustica. Ma qualcosa sta cambiando: si chiama “quiet table”, ed è il nuovo lusso della ristorazione contemporanea.

        Non si tratta di un’invenzione da monaci zen o di una moda radical chic. Il quiet table è una risposta concreta al rumore costante che inquina le nostre vite. Sempre più locali, dalle trattorie stellate alle caffetterie scandinave, stanno riservando uno o più tavoli in zone protette del locale: lontani dall’ingresso, distanti dalla cucina, schermati da piante o pannelli fonoassorbenti. Lì, niente musica ad alto volume, niente chiamate ammesse, niente bambini che scorazzano. Solo silenzio. O, meglio, quiete: quel sottofondo umano e morbido che fa da tappeto alla vera conversazione.

        In molti casi, bisogna prenotarlo esplicitamente. In altri, come in alcuni locali di Tokyo o Berlino, il quiet table è addirittura tematizzato: zero parole durante il pasto, sguardi e gesti consentiti, un foglio e una matita per comunicare, se proprio non se ne può fare a meno. E sorpresa: la gente ne esce felice. Meno stressata. Con la digestione migliore. E con l’idea che, forse, si può mangiare anche senza aggiornare il mondo su Instagram tra un boccone e l’altro.

        In Italia il trend è agli inizi, ma promette bene. A Milano, un paio di ristoranti gourmet hanno iniziato a proporlo come opzione nella prenotazione online. A Firenze, uno chef ha creato una “stanza del silenzio” con pochi coperti, musica ambientale quasi impercettibile e divieto assoluto di squilli, vibrazioni, selfie e notifiche. Un altro locale, a Roma, ha fatto ancora di più: propone il “Menu Quiete”, dove ogni portata è abbinata a una breve pausa di silenzio guidato tra un piatto e l’altro, per centrare i sensi e gustare meglio.

        C’è anche una componente psicologica forte. In un mondo in cui siamo perennemente sovrastimolati, in cui i momenti di silenzio sono visti con sospetto, ritagliarsi un angolo di quiete è diventato rivoluzionario. Alcuni clienti dicono che è come una piccola spa dell’anima. Altri lo vivono come una sfida: riuscirò a stare un’ora senza scrollare TikTok?

        Naturalmente, non è per tutti. Chi cerca la cena-spettacolo o la socialità rumorosa probabilmente continuerà a preferire i ristoranti “con atmosfera” (e decibel da concerto). Ma il quiet table ha intercettato un bisogno sommerso: quello di rallentare. Di ascoltare. Di lasciare che siano i sapori a parlare, e non l’influencer al tavolo accanto.

        La ristorazione, come ogni fenomeno culturale, rispecchia il nostro tempo. E se oggi il massimo del lusso è potersi permettere di non sentire niente, forse stiamo finalmente tornando a considerare il silenzio non come un vuoto da riempire, ma come uno spazio da custodire. Anche con forchetta e coltello in mano.

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          Il grande bluff del gourmet: piatti poveri che ora costano un patrimonio

          Farinata, trippa, cacio e pepe e pane e panelle: piatti della fame che oggi trionfano nei menù dei ristoranti gourmet. Ma dietro l’estetica minimal e le posate in argento, resta una domanda: è giusto pagare 18 euro per ciò che un tempo si mangiava con le mani sul marciapiede?

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            Una volta c’erano le osterie. Quelle vere. Dove il vino si versava nei bicchieri di vetro spesso, il pane era duro da far paura e la trippa costava meno di un pacco di gomme da masticare. Poi sono arrivati loro: gli chef stellati con la nostalgia selettiva, i bistrot urbani col design da show room, le cucine “di territorio” che hanno dimenticato il prezzo del territorio. E così ci siamo ritrovati a pagare 14 euro per un piatto di polenta, 12 per un assaggio di farinata “rivisitata” e 18 euro per tre listarelle di trippa “alla moda del quartiere”.

            La cucina povera, quella nata per necessità, è diventata la nuova miniera d’oro del gourmet contemporaneo. Il miracolo? Servire cibo da contadini con la retorica del comfort food e l’impiattamento da laboratorio di architettura.

            Prendiamo ad esempio il pane e panelle. In Sicilia si mangia in piedi, bruciandosi le mani e imprecando felici. Adesso invece te lo servono su pietra lavica, con coulis di finocchietto e arie al limone di Amalfi. Prezzo? “Dodici, ma pane fatto in casa.” Grazie tante, lo era anche nel 1870.

            E vogliamo parlare della pasta e patate? Un tempo piatto unico di chi non aveva altro che una cipolla e un mozzico di provola. Oggi la trovi con chips croccanti e profumi d’oriente, impiattata con le pinzette. Con buona pace delle nonne, che te la buttavano nel piatto con la mestolata larga.

            Poi c’è il trionfo dei piatti “poveri ma dignitosi”: la zuppa di ceci, la farinata, la minestra riscaldata. Presentati come esperienze sensoriali, “ritorni all’essenza”, “poesia del cucchiaio”. Il cucchiaio è in acciaio satinato. La poesia, spesso, è quella del conto.

            Il massimo si tocca con la cacio e pepe, già trasformata in simbolo di orgoglio culinario nazionale. Oggi fa pendant col vino naturale e si accompagna a spiegoni sul pecorino invecchiato “sotto grotta”. Ma sotto grotta una volta ci viveva chi la cacio e pepe la faceva davvero, col formaggio buono ma senza troppe cerimonie.

            Non si tratta di difendere la nostalgia a tutti i costi. È sacrosanto che la cucina si evolva, che certi sapori tornino a vivere. Ma c’è un limite tra omaggio e appropriazione, tra riscoperta e furto con destrezza ai danni del popolo affamato.

            Perché se un piatto nasce per i poveri, va benissimo celebrarlo. Ma non si può venderlo a peso d’oro. Anche perché, come diceva il cuoco della mensa operaia: “Se vuoi fare il ricco con la minestra, aggiungi l’acqua e non le bolle di tartufo”.

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              La vendetta del surgelato: come abbiamo smesso di cucinare e imparato ad amare il microonde

              Altro che impasti e ricette slow: il surgelato è tornato, più spavaldo che mai. E mentre sui social tutti postano carbonare “autentiche”, la cena reale si scongela in tre minuti.

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                C’era un tempo – neanche troppo lontano – in cui ci credevamo tutti chef. Era il lockdown: farine introvabili, impasti ossessivi, planetarie tirate fuori dalla polvere come cimeli. Gente che fino al giorno prima viveva di sushi da asporto iniziava a parlare di biga, alveolatura, autolisi. La cucina era diventata status, rifugio, terapia. Poi… è finito tutto.

                Oggi il vero vincitore è lui: il surgelato. Niente da dichiarare, niente da dimostrare. È lì, nel freezer, pronto a entrare in scena quando il frigo è vuoto e la voglia di vivere è sotto lo zero. Pizza precotta, lasagne monodose, sofficini nostalgia. Roba che tua madre guarderebbe con disprezzo, ma che salva la cena (e la dignità) più spesso di quanto ammettiamo.

                Il microonde, un tempo emblema di decadenza culinaria, oggi è tornato protagonista. Altro che slow food: qui si gioca in secondi, non in ore. Chi ha tempo di cucinare una zuppa da zero quando può infilare nel piatto una vellutata “100% naturale” da 350 grammi, pronta in 4 minuti e 800W?

                Nel frattempo, i social continuano la recita: piatti impiattati come in una cucina stellata, manicaretti da chef realizzati (forse) una volta l’anno, con l’aiuto di tutorial, anelli da impiattamento e 73 passaggi. Ma la verità è che dietro le quinte vince il tortino Findus, magari con un’insalata di contorno per sentirsi meno in colpa.

                E non è solo pigrizia. È anche realismo. Lavoro, figli, stanchezza cronica, e una coda in tangenziale che ti fa passare la voglia di impastare qualunque cosa. Il freezer è diventato il nostro salvatore silenzioso: conserva, protegge, aspetta. E ti consola anche quando sbagli a cuocere: almeno non devi lavare le pentole.

                Certo, ogni tanto qualcuno ci riprova: un brodo fatto in casa, un risotto mescolato con amore. Ma il rischio è alto: magari non viene bene, magari ci metti troppo, magari nessuno ti ringrazia. E allora meglio il comfort food già pronto. Che non ti giudica, non ti fa perdere tempo e – sorpresa – a volte è pure buono.

                Sì, il surgelato è tornato. E no, non ha bisogno della tua approvazione.
                Lui è lì, silenzioso. E quando la sera ti guardi attorno con aria spersa e fame nera, è sempre lui a salvarti. Altro che chef.

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