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L’identità nascosta di Elena Ferrante, mistero sempre meno misterioso

Chi si cela dietro Elena Ferrante? Le ipotesi rimangono vive. Chi si nasconda dietro lo pseudonimo, ora al centro dell’attenzione grazie al New York Times.

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    Un gruppo di studiosi e lettori scelti dal New York Times ha selezionato i migliori 100 libri del XXI secolo. Al vertice della classifica si trova “L’amica geniale” di Elena Ferrante, ma dietro questo nome si cela un mistero: chi è realmente l’autore? L’identità di Ferrante è avvolta nel segreto, con molteplici ipotesi su chi potrebbe essere la vera persona (o persone) dietro lo pseudonimo. Le teorie spaziano dal riserbo degli editori agli esami algoritmici, fino ai controlli sui flussi di denaro di Domenico Starnone e Anita Raja, accompagnati da polemiche sulla privacy.

    Elena Ferrante: un mito letterario di invisibilità

    L’invisibilità di Elena Ferrante è una storia affascinante, diventata un mito nel mondo letterario. A differenza di altri autori notoriamente riservati come Salinger e Pynchon, Ferrante ha mantenuto un anonimato assoluto, rilasciando interviste solo via email e partecipando al dibattito pubblico con il suo pseudonimo. Il nome “Elena Ferrante” combina la passione per Elsa Morante e un’allusione all’editore Sandro Ferri. Ferrante ha sempre sostenuto che i libri non abbiano bisogno della presenza fisica dei loro autori una volta pubblicati.

    Il dibattito sulla vera identità di Ferrante

    Dal suo esordio nel 1992 con “L’amore molesto”, Ferrante ha diviso il mondo letterario. Da una parte ci sono coloro che sostengono l’indipendenza dell’opera dalla biografia dell’autore, mentre dall’altra ci sono critici che vedono nel mistero un efficace strumento di marketing. Con l’uscita della quadrilogia de “L’amica geniale” a partire dal 2011, il dibattito si è intensificato, con opinioni che variano dagli entusiasti ai detrattori ostinati.

    Le ipotesi sull’identità di Elena Ferrante

    Le prime ipotesi sull’identità di Ferrante includevano nomi come Goffredo Fofi, Michele Prisco, Fabrizia Ramondino ed Erri De Luca. Tuttavia, l’attenzione si è poi concentrata su Domenico Starnone e sua moglie Anita Raja, traduttrice dal tedesco. Gli editori hanno spiegato che l’uso dello pseudonimo era nato per proteggere l’autore, poiché “L’amore molesto” trattava temi delicati.

    Nel corso degli anni, sono emerse diverse teorie. Luigi Galella nel 2005 ha notato somiglianze tra “L’amore molesto” e “Via Gemito” di Starnone. Indagini algoritmiche dell’Università di Roma hanno suggerito una forte corrispondenza stilistica tra i testi di Ferrante e Starnone. Nel 2016, il filologo Marco Santagata ha ipotizzato che Ferrante potesse essere la studiosa Marcella Marmo, basandosi su dettagli cronologici e topografici presenti nei romanzi. Tuttavia, un’inchiesta di Claudio Gatti ha esaminato i flussi di denaro tra la casa editrice e Anita Raja, suggerendo che Raja potesse essere l’autore.

    Indagini e studi algoritmici

    Gli studi algoritmici hanno giocato un ruolo chiave nel tentativo di svelare l’identità di Ferrante. Il centro di Martigny “OrphAnalytics” e l’Università di Padova hanno condotto analisi stilometriche che puntavano verso Starnone come l’autore. Nonostante le numerose ricerche, il mistero rimane irrisolto, alimentando il fascino globale della figura di Ferrante.

    Il valore dell’opera e il futuro del mistero

    La quadrilogia de “L’amica geniale” ha creato una frattura nel mondo letterario, con critici divisi tra entusiasti e detrattori. Tuttavia, il riconoscimento del New York Times del valore dell’opera sembra confermare il successo letterario di Ferrante. La domanda sull’identità dell’autore è duplice: riguarda sia l’invisibilità di Ferrante sia il valore intrinseco delle sue opere. Sebbene alcuni critici invitino a lasciare da parte il gossip sull’identità, la curiosità persiste.

    Un mistero che continua a intrigare

    Nel corso degli anni, vari nomi sono stati associati a Ferrante, e le indagini stilometriche e algoritmiche continuano a suggerire che dietro lo pseudonimo ci possa essere Starnone, Raja o una collaborazione tra i due. Nonostante le smentite e le polemiche sulla privacy, il mistero di Elena Ferrante rimane uno dei più intriganti nel panorama letterario contemporaneo. La richiesta di svelare l’identità dell’autore non ha più senso, poiché il fascino e il valore dell’opera di Ferrante risiedono anche nel suo enigmatico anonimato.

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      Libri

      Daniela Piazza torna con un nuovo romanzo storico: avventura, rivalità e mistero in “Una crociata perduta”

      Si intitola “Una crociata perduta” il nuovo romanzo di Daniela Piazza, ultimo atto della serie “Fieschi e Doria: saga di una rivalità”. Un intreccio di segreti, tesori leggendari, tradimenti e legami familiari che si consuma tra rovine antiche, cacce spietate e giuramenti pericolosi.

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        Un tesoro leggendario. Un simbolo misterioso inciso tra le rovine d’Egitto. Una rivalità che si trasforma in ossessione. Daniela Piazza, voce autorevole e raffinata del romanzo storico italiano, torna in libreria con Una crociata perduta, nuovo e ultimo capitolo della saga dedicata a Francesco Fieschi e Matelda, pubblicato da AltreVoci.

        Ancora una volta la scrittrice ligure, docente di Storia dell’Arte e appassionata di viaggi, musica antica e narrazione storica, porta il lettore in un viaggio mozzafiato tra epoche, luoghi e passioni. Dopo il successo de Il bastardo e La brigante, la serie si chiude con un romanzo che miscela con sapienza suspense, ambientazioni evocative e un impianto narrativo ricco di tensione emotiva.

        La trama si apre in Egitto, dove Francesco Fieschi e i suoi compagni si ritrovano braccati dai nemici, rifugiati tra rovine egizie devastate dal tempo. Ma proprio in quel luogo dimenticato, un simbolo misterioso riaccende in Francesco la convinzione che il leggendario tesoro delle Crociate possa davvero esistere.

        Inizia così una caccia implacabile, dove il pericolo più grande non è nascosto tra le dune, ma si annida nel cuore stesso della rivalità: Marco Doria, l’uomo che chiama Francesco “fratello”, ma che lo odia con una ferocia viscerale, è deciso a mettergli i bastoni tra le ruote. E sarà una guerra di nervi, colpi bassi e verità inconfessabili.

        Intanto, in Francia, si muove un altro tassello della vicenda: Pierre, re dei ladruncoli, insegue un bambino speciale, Martin. Non è solo un fuggiasco: è un’occasione di riscatto, un’ultima speranza. Ma a difenderlo c’è Matelda, pronta a tutto pur di proteggerlo, anche a costo della vita.

        Con Una crociata perduta, Daniela Piazza firma un romanzo avvincente, capace di fondere epica medievale e tensione narrativa, amicizie tradite e famiglie scelte, in un crescendo che ha il ritmo di una fuga e il respiro di un sogno infranto. Un libro che conclude degnamente una delle saghe storiche più originali e coinvolgenti del panorama italiano contemporaneo.

        Per i fan di lunga data e per chi ama la storia raccontata con passione, è l’appuntamento da non perdere.

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          Perché leggiamo sempre meno? E perché dovremmo preoccuparcene

          In Italia un adulto su due non apre nemmeno un libro in un anno. E i dati peggiorano ogni anno. Ma leggere non è solo un passatempo: è un allenamento alla complessità, alla libertà, alla resistenza. Senza libri, perdiamo molto più che storie.

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            Le statistiche non mentono: nel 2024 solo il 38% degli italiani ha letto almeno un libro non scolastico nei dodici mesi precedenti. Un crollo silenzioso, che non fa rumore ma cambia tutto. Perché leggere non è solo un passatempo colto: è un atto politico, sociale, persino fisico. È una palestra per la mente e per la cittadinanza. E se i lettori calano, calano anche le possibilità di capire il mondo.

            Gli editori lo sanno, e tremano. Le vendite si sono polarizzate: pochi titoli vendono tanto, tantissimi vendono pochissimo. I giovani leggono meno, ma anche i genitori. Nelle case scompaiono le librerie. Si legge sui social, certo, ma non è la stessa cosa. I libri chiedono tempo, attenzione, sforzo: tre parole sempre più rare.

            “Un Paese che legge poco è un Paese che pensa poco”, dice uno scrittore. Ma è anche un Paese che rischia di farsi manipolare più facilmente, che si affida all’impressione e non alla riflessione, che perde la memoria del passato e la capacità di immaginare il futuro.

            Il problema non è solo cosa si legge, ma che cosa si perde non leggendo. Empatia, vocabolario, spirito critico, capacità di concentrazione, apertura mentale. I benefici della lettura sono comprovati da decine di studi. Ma continuano a essere sottovalutati.

            Ci sono, per fortuna, piccole resistenze. Librerie indipendenti che fanno animazione culturale. Festival che uniscono scrittori e lettori. Bookclub che nascono online e si trasformano in comunità vere. Ma sono isole, non arcipelaghi.

            E allora la domanda è semplice: vogliamo un futuro senza storie? Senza parole? Senza pensiero complesso? Perché è quello che ci aspetta, se rinunciamo ai libri.

            Leggere è un piacere. Ma oggi è anche un dovere. Verso noi stessi. E verso ciò che vorremmo restasse umano.

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              Le dieci suore morte in un monastero: quando Camilleri scoprì un segreto dei Gattopardi

              Andrea Camilleri, nel suo romanzo storico “Le pecore e il pastore”, racconta l’inquietante sacrificio di dieci giovani monache benedettine nel monastero di Palma di Montechiaro. Una storia vera, rimasta sepolta nella clausura e svelata dallo scrittore grazie a una nota a pie’ pagina. Una vicenda che coinvolge il Vescovo Peruzzo, la mistica Suor Maria Crocifissa e l’antica famiglia Tomasi di Lampedusa.

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                Il 6 settembre 2025 Andrea Camilleri avrebbe compiuto cento anni. Saranno innumerevoli le iniziative che nei prossimi mesi celebreranno il genio dello scrittore siciliano: premi letterari, mostre, spettacoli, letture e convegni. Ma tra le tante opere e scoperte del maestro, ce n’è una che sfugge ai riflettori e che merita di essere ricordata: la storia delle dieci suore morte nel monastero di Palma di Montechiaro.

                Camilleri amava i suoi romanzi storici più di ogni altro scritto. Li definiva il suo vero matrimonio, mentre Montalbano era l’amante ingombrante, quella che ti ruba la scena. Proprio in uno di quei romanzi, “Le pecore e il pastore”, Camilleri ha ricostruito un fatto accaduto nel 1945 e rimasto avvolto nel silenzio per decenni: dieci giovani monache benedettine si sarebbero lasciate morire di fame e di sete in clausura per ottenere la salvezza del loro vescovo, ferito in un attentato.

                Tutto parte da una nota a pie’ pagina trovata in un libro di Enzo Di Natali, “L’attentato contro il Vescovo dei contadini”. Una lettera del 1956, firmata da Suor Enrichetta Fanara, abadessa del monastero del Santissimo Rosario di Palma di Montechiaro, racconta con tono quasi casuale un sacrificio che ha dell’incredibile: «Quando V.E. ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offrì la vita di dieci monache per salvarlo. Il Signore accettò l’offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore».

                Il vescovo in questione era Giovanni Battista Peruzzo, detto il “vescovo dei contadini”, un piemontese che si era schierato apertamente contro i latifondisti e per i diritti dei più poveri. L’9 luglio 1945 subì un attentato a Santo Stefano Quisquina. Ferito da due colpi di fucile, fu operato d’urgenza e sopravvisse. Nessuno, fino alla lettera della Fanara, sapeva che dietro quella sopravvivenza poteva celarsi un sacrificio mistico.

                Il monastero era stato fondato nel Seicento dal cosiddetto “Duca Santo”, Giulio Tomasi di Lampedusa, antenato dello scrittore Giuseppe. Lì visse anche Suor Maria Crocifissa, mistica celebre per i suoi scritti e le lotte col Demonio, diventata figura ispiratrice della Beata Corbera nel Gattopardo. L’ambiente era carico di spiritualità estrema, eccessi mistici, fustigazioni, visioni. Ma nulla, nemmeno la celebre “lettera del Diavolo” attribuita alla suora, regge il confronto con la vicenda delle dieci monache.

                Camilleri racconta che a confermare tutto fu un anziano confessore teatino, che però si rifiutò di aggiungere dettagli: «Posso parlarne solo con chi ha grandissima fede», avrebbe detto. Nessuno, fuori dalle mura del monastero, seppe nulla. Nessun documento, nessun registro, nessun nome. Solo quella lettera tardiva dell’abadessa, scritta undici anni dopo i fatti.

                Camilleri si chiede perché aspettò così tanto. E azzarda un’ipotesi: le visite di Giuseppe Tomasi di Lampedusa al monastero nel 1955 la spinsero a raccontare di più. Il principe si commosse ascoltando le storie delle suore, forse quella reazione persuase la Fanara a rivelare il sacrificio delle dieci benedettine.

                «Dieci pecore per un pastore», scrive Camilleri. Una formula crudele, ma perfettamente adatta al rigore di quella spiritualità. Un mistero che ci interroga ancora oggi, perché nessuna di loro chiese di fermarsi? Nessuna implorò pietà? O le altre, semplicemente, non vollero sentire?

                Domande che restano senza risposta. Ma che fanno tremare, come solo la verità sa fare.

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