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Milano riscopre la Relazione Smuraglia: la storica denuncia del Comitato Antimafia torna in città dopo 32 anni

Domani alle 18:30, nella prestigiosa Sala Alessi di Palazzo Marino, la presentazione del documento dimenticato che denunciava già nel 1992 l’infiltrazione mafiosa nel capoluogo lombardo. Una copia del volume sarà distribuita a tutti i partecipanti.

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    Milano si prepara a riaprire le pagine di una storia mai del tutto conclusa. Domani, alle 18:30, nella cornice della Sala Alessi di Palazzo Marino, sarà finalmente presentata la storica relazione conclusiva del Comitato Antimafia Smuraglia, un documento fondamentale che, a trentadue anni di distanza, torna a parlare alla città e al Paese.

    Sembra incredibile pensarlo oggi, in un’epoca in cui la presenza della mafia nel Nord Italia è un dato di fatto acquisito, ma nel 1992 la parola “mafia” a Milano era quasi un tabù. La relazione del Comitato Smuraglia, che verrà riproposta e discussa domani, anticipava gran parte delle problematiche che ancora oggi affliggono il tessuto socio-economico della Lombardia.

    Un evento che non si può perdere

    La Presidente del Consiglio Comunale Elena Buscemi, promotrice dell’iniziativa, ha deciso di restituire alla città e al pubblico un documento che non solo è di straordinaria attualità, ma che merita di essere conosciuto e valorizzato. Insieme a lei, esperti e personalità del mondo accademico e civile analizzeranno i punti salienti di quel rapporto rimasto per troppo tempo sepolto nei meandri della burocrazia.

    Un comitato coraggioso e lungimirante

    Il Comitato Smuraglia, costituito nel novembre 1990, rappresentò il primo esempio di organismo antimafia a livello comunale. Formato da consiglieri comunali, docenti universitari, ex-magistrati e rappresentanti del mondo imprenditoriale e sindacale, il comitato si occupò di monitorare e denunciare le infiltrazioni mafiose nelle istituzioni e nella società milanese, anticipando di anni quelle che sarebbero state poi le conclusioni delle più famose inchieste giudiziarie.

    La relazione conclusiva, depositata il 14 luglio 1992, fu un’analisi accurata e dettagliata delle dinamiche mafiose all’ombra della Madonnina. Purtroppo, però, quel lavoro non fu mai discusso ufficialmente in Consiglio Comunale, né presentato alla città. Oggi, finalmente, quelle pagine tornano alla luce per raccontarci una storia che riguarda tutti noi, perché, come disse lo stesso Carlo Smuraglia, “la mafia esiste solo se la si lascia esistere”.

    L’importanza di non dimenticare

    È proprio per evitare che quel lavoro vada perduto che domani, in un clima di forte emozione e di grande partecipazione, tutti i presenti riceveranno una copia del volume contenente la relazione. Una memoria storica che deve essere tramandata, affinché le nuove generazioni possano comprendere l’importanza della lotta alla mafia anche e soprattutto nelle istituzioni.

    Un’occasione per riflettere sul presente

    L’incontro di domani non sarà solo una rievocazione storica, ma anche un’occasione per riflettere su quanto il fenomeno mafioso abbia cambiato volto nel corso degli anni, adattandosi e infiltrandosi nei tessuti economici e sociali delle città del Nord. La presenza del Comitato Smuraglia e il suo lavoro erano segnali di allarme che molti preferirono non ascoltare, ma che oggi tornano prepotentemente alla ribalta.

    In un momento in cui la memoria sembra essere sempre più corta e le dinamiche mafiose si fanno sempre più subdole, riscoprire quella relazione significa riaccendere una luce su un problema che, ancora oggi, ci riguarda da vicino.

    Domani, a Palazzo Marino, non sarà solo una presentazione: sarà un’occasione per guardare al passato e capire come costruire un futuro in cui la mafia non abbia più terreno fertile su cui attecchire. Non mancate.

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      Daniela Piazza torna con un nuovo romanzo storico: avventura, rivalità e mistero in “Una crociata perduta”

      Si intitola “Una crociata perduta” il nuovo romanzo di Daniela Piazza, ultimo atto della serie “Fieschi e Doria: saga di una rivalità”. Un intreccio di segreti, tesori leggendari, tradimenti e legami familiari che si consuma tra rovine antiche, cacce spietate e giuramenti pericolosi.

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        Un tesoro leggendario. Un simbolo misterioso inciso tra le rovine d’Egitto. Una rivalità che si trasforma in ossessione. Daniela Piazza, voce autorevole e raffinata del romanzo storico italiano, torna in libreria con Una crociata perduta, nuovo e ultimo capitolo della saga dedicata a Francesco Fieschi e Matelda, pubblicato da AltreVoci.

        Ancora una volta la scrittrice ligure, docente di Storia dell’Arte e appassionata di viaggi, musica antica e narrazione storica, porta il lettore in un viaggio mozzafiato tra epoche, luoghi e passioni. Dopo il successo de Il bastardo e La brigante, la serie si chiude con un romanzo che miscela con sapienza suspense, ambientazioni evocative e un impianto narrativo ricco di tensione emotiva.

        La trama si apre in Egitto, dove Francesco Fieschi e i suoi compagni si ritrovano braccati dai nemici, rifugiati tra rovine egizie devastate dal tempo. Ma proprio in quel luogo dimenticato, un simbolo misterioso riaccende in Francesco la convinzione che il leggendario tesoro delle Crociate possa davvero esistere.

        Inizia così una caccia implacabile, dove il pericolo più grande non è nascosto tra le dune, ma si annida nel cuore stesso della rivalità: Marco Doria, l’uomo che chiama Francesco “fratello”, ma che lo odia con una ferocia viscerale, è deciso a mettergli i bastoni tra le ruote. E sarà una guerra di nervi, colpi bassi e verità inconfessabili.

        Intanto, in Francia, si muove un altro tassello della vicenda: Pierre, re dei ladruncoli, insegue un bambino speciale, Martin. Non è solo un fuggiasco: è un’occasione di riscatto, un’ultima speranza. Ma a difenderlo c’è Matelda, pronta a tutto pur di proteggerlo, anche a costo della vita.

        Con Una crociata perduta, Daniela Piazza firma un romanzo avvincente, capace di fondere epica medievale e tensione narrativa, amicizie tradite e famiglie scelte, in un crescendo che ha il ritmo di una fuga e il respiro di un sogno infranto. Un libro che conclude degnamente una delle saghe storiche più originali e coinvolgenti del panorama italiano contemporaneo.

        Per i fan di lunga data e per chi ama la storia raccontata con passione, è l’appuntamento da non perdere.

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          Perché leggiamo sempre meno? E perché dovremmo preoccuparcene

          In Italia un adulto su due non apre nemmeno un libro in un anno. E i dati peggiorano ogni anno. Ma leggere non è solo un passatempo: è un allenamento alla complessità, alla libertà, alla resistenza. Senza libri, perdiamo molto più che storie.

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            Le statistiche non mentono: nel 2024 solo il 38% degli italiani ha letto almeno un libro non scolastico nei dodici mesi precedenti. Un crollo silenzioso, che non fa rumore ma cambia tutto. Perché leggere non è solo un passatempo colto: è un atto politico, sociale, persino fisico. È una palestra per la mente e per la cittadinanza. E se i lettori calano, calano anche le possibilità di capire il mondo.

            Gli editori lo sanno, e tremano. Le vendite si sono polarizzate: pochi titoli vendono tanto, tantissimi vendono pochissimo. I giovani leggono meno, ma anche i genitori. Nelle case scompaiono le librerie. Si legge sui social, certo, ma non è la stessa cosa. I libri chiedono tempo, attenzione, sforzo: tre parole sempre più rare.

            “Un Paese che legge poco è un Paese che pensa poco”, dice uno scrittore. Ma è anche un Paese che rischia di farsi manipolare più facilmente, che si affida all’impressione e non alla riflessione, che perde la memoria del passato e la capacità di immaginare il futuro.

            Il problema non è solo cosa si legge, ma che cosa si perde non leggendo. Empatia, vocabolario, spirito critico, capacità di concentrazione, apertura mentale. I benefici della lettura sono comprovati da decine di studi. Ma continuano a essere sottovalutati.

            Ci sono, per fortuna, piccole resistenze. Librerie indipendenti che fanno animazione culturale. Festival che uniscono scrittori e lettori. Bookclub che nascono online e si trasformano in comunità vere. Ma sono isole, non arcipelaghi.

            E allora la domanda è semplice: vogliamo un futuro senza storie? Senza parole? Senza pensiero complesso? Perché è quello che ci aspetta, se rinunciamo ai libri.

            Leggere è un piacere. Ma oggi è anche un dovere. Verso noi stessi. E verso ciò che vorremmo restasse umano.

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              Le dieci suore morte in un monastero: quando Camilleri scoprì un segreto dei Gattopardi

              Andrea Camilleri, nel suo romanzo storico “Le pecore e il pastore”, racconta l’inquietante sacrificio di dieci giovani monache benedettine nel monastero di Palma di Montechiaro. Una storia vera, rimasta sepolta nella clausura e svelata dallo scrittore grazie a una nota a pie’ pagina. Una vicenda che coinvolge il Vescovo Peruzzo, la mistica Suor Maria Crocifissa e l’antica famiglia Tomasi di Lampedusa.

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                Il 6 settembre 2025 Andrea Camilleri avrebbe compiuto cento anni. Saranno innumerevoli le iniziative che nei prossimi mesi celebreranno il genio dello scrittore siciliano: premi letterari, mostre, spettacoli, letture e convegni. Ma tra le tante opere e scoperte del maestro, ce n’è una che sfugge ai riflettori e che merita di essere ricordata: la storia delle dieci suore morte nel monastero di Palma di Montechiaro.

                Camilleri amava i suoi romanzi storici più di ogni altro scritto. Li definiva il suo vero matrimonio, mentre Montalbano era l’amante ingombrante, quella che ti ruba la scena. Proprio in uno di quei romanzi, “Le pecore e il pastore”, Camilleri ha ricostruito un fatto accaduto nel 1945 e rimasto avvolto nel silenzio per decenni: dieci giovani monache benedettine si sarebbero lasciate morire di fame e di sete in clausura per ottenere la salvezza del loro vescovo, ferito in un attentato.

                Tutto parte da una nota a pie’ pagina trovata in un libro di Enzo Di Natali, “L’attentato contro il Vescovo dei contadini”. Una lettera del 1956, firmata da Suor Enrichetta Fanara, abadessa del monastero del Santissimo Rosario di Palma di Montechiaro, racconta con tono quasi casuale un sacrificio che ha dell’incredibile: «Quando V.E. ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offrì la vita di dieci monache per salvarlo. Il Signore accettò l’offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore».

                Il vescovo in questione era Giovanni Battista Peruzzo, detto il “vescovo dei contadini”, un piemontese che si era schierato apertamente contro i latifondisti e per i diritti dei più poveri. L’9 luglio 1945 subì un attentato a Santo Stefano Quisquina. Ferito da due colpi di fucile, fu operato d’urgenza e sopravvisse. Nessuno, fino alla lettera della Fanara, sapeva che dietro quella sopravvivenza poteva celarsi un sacrificio mistico.

                Il monastero era stato fondato nel Seicento dal cosiddetto “Duca Santo”, Giulio Tomasi di Lampedusa, antenato dello scrittore Giuseppe. Lì visse anche Suor Maria Crocifissa, mistica celebre per i suoi scritti e le lotte col Demonio, diventata figura ispiratrice della Beata Corbera nel Gattopardo. L’ambiente era carico di spiritualità estrema, eccessi mistici, fustigazioni, visioni. Ma nulla, nemmeno la celebre “lettera del Diavolo” attribuita alla suora, regge il confronto con la vicenda delle dieci monache.

                Camilleri racconta che a confermare tutto fu un anziano confessore teatino, che però si rifiutò di aggiungere dettagli: «Posso parlarne solo con chi ha grandissima fede», avrebbe detto. Nessuno, fuori dalle mura del monastero, seppe nulla. Nessun documento, nessun registro, nessun nome. Solo quella lettera tardiva dell’abadessa, scritta undici anni dopo i fatti.

                Camilleri si chiede perché aspettò così tanto. E azzarda un’ipotesi: le visite di Giuseppe Tomasi di Lampedusa al monastero nel 1955 la spinsero a raccontare di più. Il principe si commosse ascoltando le storie delle suore, forse quella reazione persuase la Fanara a rivelare il sacrificio delle dieci benedettine.

                «Dieci pecore per un pastore», scrive Camilleri. Una formula crudele, ma perfettamente adatta al rigore di quella spiritualità. Un mistero che ci interroga ancora oggi, perché nessuna di loro chiese di fermarsi? Nessuna implorò pietà? O le altre, semplicemente, non vollero sentire?

                Domande che restano senza risposta. Ma che fanno tremare, come solo la verità sa fare.

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