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Milano, il Salone del Mobile sfida i dazi e la malinconia

In un Paese che si scopre improvvisamente protezionista, tra dazi che rimbalzano dai palazzi della politica alle aziende che esportano, Milano inaugura oggi il Salone del Mobile. Un’istituzione che, a differenza dei proclami, ha radici vere, mani che lavorano e idee che camminano. E soprattutto, parla ancora al mondo.

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    Mentre si discute – giustamente – di geopolitica, commercio globale e relazioni economiche da ridefinire, il Salone si presenta puntuale all’appuntamento con la città, l’industria e il pubblico. Non solo non si è lasciato travolgere dalle onde della pandemia, ma è riuscito a ricostruire un ecosistema capace di attrarre migliaia di visitatori, buyer, designer e semplici curiosi. Una vitalità che oggi stride, e non poco, con l’umore generale di Milano.

    La metropoli lombarda è apparsa negli ultimi mesi più grigia del solito: stanca, polemica, impaurita. Il dibattito pubblico è tornato ad avere come regista la magistratura, le conversazioni nelle “cene che contano” hanno già archiviato i progetti per il futuro per occuparsi delle elezioni comunali, come se fossero dietro l’angolo. Intanto, i milanesi veri – quelli che fanno i conti con l’inflazione e le case diventate inaccessibili – avvertono sempre più la distanza tra chi può e chi arranca. L’interclassismo che un tempo era il tratto distintivo di Milano oggi sembra un ricordo da libro di storia.

    Eppure, in questo clima incerto, il Salone del Mobile si conferma un punto fermo. Non solo per i numeri – le aziende italiane presenti in Fiera valgono, da sole, nove miliardi di fatturato – ma per la sua capacità di mettere in scena una visione. Non è una fiera qualsiasi, non è solo una vetrina: è il punto d’incontro tra il saper fare e il saper raccontare. È industria che si fa cultura. E se quest’anno alcune defezioni illustri – come quelle di Molteni o Giorgetti – hanno fatto notizia, è altrettanto vero che la rappresentatività dell’evento resta intatta. La sostanza regge.

    Il vero rischio, semmai, è che si perda di vista il senso profondo della manifestazione. Che si confonda la Design Week con il Fuorisalone, la riflessione con l’aperitivo, la manifattura con l’evento. Il successo del format milanese – quello vero, quello che si svolge a Rho – sta nel suo legame con i territori, con le filiere produttive, con una regione che ha saputo tenere botta e guardare avanti, anche esplorando mercati nuovi e strategici come India, Arabia Saudita ed Emirati.

    Il design italiano non vive di rendita. Si muove, si adatta, si reinventa. E Milano, se vuole davvero tornare a essere guida e non solo vetrina, deve imparare a guardarsi proprio in quello specchio: quello che il Salone ogni anno le mette davanti. Per una settimana, tutto questo torna a brillare. Sarebbe bello ricordarsene anche dopo.

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