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Società

Tornano le cabine telefoniche (ma non servono più a telefonare)

Quelle che un tempo erano simbolo della comunicazione d’emergenza diventano oggi oggetti di design urbano e rifugi per chi cerca connessione, solitudine o semplicemente un momento per sé. Perché se il telefono non squilla più, la città ha ancora bisogno di un posto dove mettersi in pausa.

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    Sparite, smantellate, abbandonate, ignorate. Per anni le cabine telefoniche sono state il simbolo della modernità sconfitta: residui arrugginiti di un’epoca fatta di gettoni e schede, destinate all’oblio sotto i colpi del progresso digitale. Ma come accade spesso nella moda e nell’urbanistica, il revival è dietro l’angolo. E così, complice una nuova sensibilità per l’arredo urbano e un certo gusto per la nostalgia ben confezionata, in molte città europee stanno tornando. Ma con funzioni completamente diverse.

    A Berlino, alcune sono diventate micro-librerie a cielo aperto: si entra, si lascia un libro, se ne prende un altro. Un patto non scritto tra lettori urbani, un modo elegante per dire “io c’ero” in una città che cambia. A Londra, patria delle mitiche cabine rosse, sono diventate box per selfie vintage, oppure postazioni per ricaricare cellulari con pannelli solari. In Francia alcune hanno ospitato installazioni artistiche o piccoli podcast point dove ascoltare audio-letteratura mentre si attende l’autobus.

    In Italia, che sul tema ha sempre avuto un rapporto più pratico che affettivo, qualcosa si sta muovendo. A Firenze, ad esempio, una vecchia cabina in disuso è stata trasformata in una sorta di “confessionale laico”: si entra, si registra un pensiero, un segreto, una preghiera, che viene poi elaborata da un software per diventare parte di una installazione sonora collettiva. A Milano, invece, alcune cabine hanno trovato nuova vita come mini uffici temporanei per lavoratori nomadi, con seduta, presa usb, wi-fi gratuito e (udite udite) aria condizionata.

    C’è chi le fotografa, chi ci gira videoclip, chi semplicemente si ferma a leggere la lista delle istruzioni ancora incollata all’interno. Alcuni comuni valutano persino la possibilità di usarle come micro-centri di primo soccorso, dotati di defibrillatori e istruzioni vocali in più lingue. Altri le propongono come teche per opere d’arte a rotazione o info-point turistici in miniatura. Le potenzialità sembrano infinite, almeno quanto l’immaginazione degli architetti urbani e dei progettisti del nuovo lifestyle da città.

    Il paradosso è che, in un’epoca dove tutti sono sempre connessi, ci sia un bisogno crescente di luoghi dove isolarsi. Dove raccogliere le idee, respirare, fingere una telefonata pur di non rispondere a quella vera. E in questo senso, le cabine telefoniche hanno un potenziale poetico: sono angoli di privacy in mezzo al traffico, gusci di metallo dove per un attimo si può fare silenzio. Come se avessero cambiato missione: non più mettersi in contatto con qualcuno, ma recuperare il contatto con se stessi.

    Chi le considera relitti urbani, forse non ha colto il loro valore simbolico. Non c’è niente di più contemporaneo, oggi, che ripensare un oggetto del passato per i bisogni del presente. Una cabina telefonica può diventare una capsula del tempo, un punto di scambio, un rifugio anti-ansia. Non è detto che debba squillare per farci sentire qualcosa. Basta entrarci, chiudere la porta e ascoltare il silenzio.

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      Il Papa è morto, i rettiliani ci spiano e la Terra è piatta (ma solo il lunedì)

      Dalla “morte” di Papa Francesco annunciata (a sproposito) da Fabrizio Corona ai grandi classici come scie chimiche, terrapiattismo e governi segreti: viaggio nel lato più strampalato dell’umanità. Dove non serve pensare, basta credere

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        Il 2025 è appena cominciato e siamo già certi di una cosa: il premio per la miglior sceneggiatura non originale lo vince, ancora una volta, il complottismo. In testa alla classifica, l’ultima geniale intuizione firmata Fabrizio Corona, che qualche settimana fa ha annunciato urbi et orbi – con la solennità tipica del grande giornalismo investigativo – che Papa Francesco era morto. Morto sul serio, proprio lui. Peccato che il Pontefice nel frattempo fosse vivo e vegeto, impegnato a distribuire benedizioni e a smontare fake news con la sola forza del suo sorriso (e della sua cartella clinica).

        Eppure, il danno è fatto. Come ogni teoria del complotto che si rispetti, anche quella sul Papa morto ha trovato il suo pubblico, i suoi share e – perché no – pure i suoi like. Perché oggi la realtà è sopravvalutata. Troppo piatta, troppo spiegabile. Molto meglio una buona dose di delirio condita da video mossi, titoli in caps lock e dichiarazioni tipo: “Fonti certe ma riservate confermano…”

        Ma non fermiamoci al Vaticano. Sappiate che non siete voi a comandare la vostra vita. No, tranquilli: secondo i teorici del Nuovo Ordine Mondiale, esiste una congrega di 300 persone – nessuno sa esattamente chi siano, ma si chiamano “i 300” e fa molto film epico – che tirano le fila del pianeta come burattinai dell’apocalisse. Sì, anche se avete perso il tram o bruciato il sugo, è colpa loro. Hanno le chiavi del sistema bancario, della politica globale e forse anche del telecomando che non trovate mai.

        E già che siamo in tema di geometrie discutibili, la Terra è piatta, ma non ditelo alla Nasa. Loro – secondo i flat earthers – ci ingannano da decenni con immagini finte, Photoshop spaziale e astronauti attori (Tom Hanks, ci sei?). La verità è che viviamo su un enorme disco sorvegliato da un muro di ghiaccio, tipo Game of Thrones, solo senza draghi. Ah, e la gravità è un’invenzione. Cadi perché… boh, perché sì.

        Non dimentichiamo le scie chimiche, quelle strisce bianche lasciate dagli aerei che – secondo alcuni – non sono condensa, ma pozioni segrete spruzzate nei cieli per controllare il meteo, le emozioni, l’intelligenza e probabilmente anche la quantità di sonno. C’è chi giura che dopo un sorvolo di scie chimiche ha dimenticato dove aveva parcheggiato. Spoiler: era semplicemente distratto.

        E poi loro, gli immortali, instancabili, inossidabili… rettiliani. Rettili mutaforma travestiti da esseri umani, infiltrati ai vertici del potere. Hanno nomi noti – c’è chi include Barack Obama, Angela Merkel, e naturalmente la Regina Elisabetta (pace all’anima sua e alle sue squame). L’obiettivo? Controllare l’umanità e nutrirsi della nostra paura. Il tutto mentre partecipano a talk show e stringono mani sudate. Non deve essere facile, ma l’agenda aliena è fitta.

        Ci sarebbe da ridere, se non fosse che in tutto questo circo c’è chi ci crede davvero. Gente che rifiuta i vaccini, spegne il cervello e accende TikTok, pronta a seguire il primo santone digitale che urla “svegliatevi!”. Ma svegliarsi da cosa, di preciso? Dalla noiosa realtà, dove non esistono elisir di verità assolute, ma solo la fatica di pensare con la propria testa?

        In fondo, il complottismo è il fantasy dei pigri, la religione laica di chi non si fida più di nulla ma crede a tutto. E se davvero il Papa fosse un ologramma, la Terra un frisbee e Mattarella un rettiliano? No dai, lui no. O forse sì?

        Occhio al cielo, potrebbe cadere una scia chimica. O un neurone.

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          Baby Spa: spopola la moda del relax estetico per i bambini. Sarà normale?

          Il fenomeno delle baby Spa continua a suscitare discussioni e opinioni contrastanti. Solo un gioco o nasconde messaggi più profondi sul ruolo della bellezza nella vita dei bambini?

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            Negli ultimi anni, le baby Spa stanno diventando una tendenza sempre più popolare, offrendo esperienze di relax e bellezza per bambine e bambini in età precoce. Da Milano a Palermo, queste strutture promettono un momento di lusso per i più piccoli. Manicure, maschere idratanti, pediluvi agli oli essenziali e persino trattamenti estetici personalizzati. È una moda che solleva interrogativi sulla sua natura: semplice divertimento o una forma di “addestramento” estetico precoce? Vediamo.

            Da gioco a rituale estetico

            Le baby Spa propongono servizi che includono massaggi al burro di karité, trucco leggero con gloss e ciprie colorate, percorsi benessere e prodotti ipoallergenici dedicati alla pelle delicata dei bambini. Quello che sembra un gioco innocente si trasforma spesso in un’introduzione alla routine estetica, un rituale che normalizza la cura dell’aspetto già in tenera età. Questa tendenza si collega a feste di compleanno e eventi speciali, dove gruppi di bambine si ritrovano per una giornata dedicata alla bellezza, spesso accompagnate da percorsi coordinati e “lezioni” di cura estetica. Tuttavia, il fenomeno è prevalentemente rivolto alle bambine, mentre i bambini rimangono spesso esclusi, evidenziando il legame tra questa moda e gli stereotipi di genere.

            Ma come cresceranno queste baby Spa?

            La crescente popolarità delle baby Spa solleva interrogativi su come questa tendenza influisca sulla percezione della bellezza e sul benessere dei più piccoli. Introducendo bambini, in particolare bambine, a pratiche estetiche ritualizzate, si rischia di normalizzare l’idea che la bellezza sia un obbligo, piuttosto che una scelta. Le Spa per bambini, pur presentandosi come un divertimento innocente, mettono in evidenza un approccio culturale alla bellezza che potrebbe avere effetti a lungo termine sulla formazione della loro identità. Questi spazi ci spingono a riflettere su cosa significhi veramente “cura di sé” e su quanto debba essere influenzato da standard estetici predeterminati.

            Un fenomeno mondiale

            Negli Stati Uniti, infatti, diverse baby Spa offrono “princess packages” per bambine, con tiara inclusa, sessioni di trucco e acconciature glitterate. In Giappone oltre alle Spa tradizionali, alcune strutture integrano esperienze di relax per bambini che includono bagni aromatici e trattamenti leggeri per la pelle. In Brasile, invece, le baby Spa uniscono la cura estetica all’educazione sul benessere e la salute, con attività che combinano la bellezza e momenti di relax.

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              Generazione boomerang: perché tanti figli adulti tornano a vivere con i genitori

              Tra affitti insostenibili, lavori precari e relazioni complicate, cresce il numero di adulti che rientrano nella casa d’origine. Una scelta a volte forzata, a volte comoda. Ma che dice molto di come sta cambiando la società

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                Dopo anni di fatica, bollette e coinquilini improbabili, c’è chi prende una decisione che un tempo sarebbe sembrata un fallimento: tornare a casa. E invece oggi, per migliaia di giovani adulti italiani, il rientro nel nido familiare è una scelta sempre più comune. Li chiamano “boomerang kids”: figli che se ne vanno e poi tornano, spesso con una laurea in tasca, qualche delusione lavorativa alle spalle, e più sogni che certezze.

                Il fenomeno non è nuovo, ma nel 2025 è diventato strutturale. Secondo l’Istat, oltre il 66% dei giovani tra i 25 e i 34 anni vive ancora o di nuovo con i genitori. I motivi? Tanti, e spesso intrecciati. I costi dell’indipendenza sono diventati proibitivi: affitti alle stelle, bollette da capogiro, spese quotidiane che si sommano a stipendi ancora bassi e contratti spesso a tempo determinato.

                Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia. Alcuni tornano per scelta, non per necessità. Per prendersi una pausa dopo una separazione, per dedicarsi a un master, per risparmiare e avviare un progetto. E in fondo, perché a casa si sta comodi: si mangia meglio, si spende meno, si condivide la quotidianità.

                Non mancano però le difficoltà. Vivere da adulti con altri adulti – che per di più ti hanno cresciuto – non è semplice. Si riaprono dinamiche familiari sopite, si ridefiniscono ruoli, si rinegoziano spazi e abitudini. “A volte mi sento un adolescente, anche se ho 32 anni e lavoro da sei”, racconta Marco, tornato a vivere dai genitori dopo la pandemia. “Ma poi la sera, quando torno stanco e c’è qualcuno che mi chiede com’è andata, capisco che questa convivenza ha anche del bello”.

                Molti genitori accolgono i figli con entusiasmo, ma non senza fatica. È una seconda genitorialità, fatta di affetto ma anche di rinunce: alla privacy, al silenzio, ai propri ritmi. “Non mi pesa averlo qui – dice Anna, madre di due figli trentenni – ma cerchiamo di non ricadere nei vecchi ruoli. Ognuno fa la sua parte, siamo coinquilini con affetto”.

                Il fenomeno apre molte domande. Sulla tenuta del mercato immobiliare, sul sistema occupazionale, sul significato stesso di indipendenza. Ma anche su un’idea di famiglia che cambia: più flessibile, meno gerarchica, forse più solidale.

                La generazione boomerang ci dice che crescere, oggi, non significa per forza andarsene per sempre. E che, a volte, tornare non è un passo indietro. Ma una nuova partenza.

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