Speciale Festival di Sanremo 2025
Brunori, applausi e ironia a Sanremo: «Per chi ha fatto la gavetta nelle piazzette, Sanremo è uno scherzo»
Dopo sedici anni di carriera, Brunori Sas debutta al Festival con L’albero delle noci. In sala stampa l’atmosfera è calorosa, tra flash e applausi. «Sanremo è un’esperienza fondamentale, anche per la mia terra. Sono fiero di portare qui una parte di me e di rappresentare il cantautorato. Certo, potrei anche andare all’Eurovision… con lo stylist di Achille Lauro!»
Brunori è attesissimo in sala stampa. Tutti i giornalisti italiani lo stanno aspettando e quando arriva si scatena un applauso liberatorio. Lui gigioneggia sotto i flash dei fotografi, si vede che non è abituato a tutto questo clamore. Fa una mossa, una posa, poi scherza. Ride. Si schermisce. Poi si siede al posto d’onore.
Prima a Sanremo, com’è andata?
«Sono molto felice di essere arrivato qui dopo sedici anni di carriera, perché credo sia giusto avere una possibilità diversa: è bello che Sanremo abbia più voci, più stili, più linguaggi musicali. È una cosa molto forte, anche il corpo ne risente e reagisce. Da domenica siamo stati qui in attesa di esibirci, ora c’è lo scarico naturale della tensione. Ho vissuto l’esperienza come se fossi in teatro, mi sono sentito a mio agio sul palco: è stato molto bello. Per uno come me che ha fatto la gavetta nelle piazzette dei piccoli paesi, dove la gente si porta la sedia e ti maledice se non fai uno spettacolo che gli piace, Sanremo è uno scherzo»
Si parla tanto del cantautorato e quando si nomina questo termine si parla di te e di Lucio Corsi…
Sono contento di rappresentare i cantautori, ce ne sono tantissimi molto validi. Sono contento che questa categoria della canzone sia rappresentata. Il fatto che mi vedano e dicano ‘ma allora esiste anche quella musica lì’, mi riempie d’orgoglio. Anche perché quando parlo ai miei nipoti non è che sappiano tanto chi è De André. Ma io sono pronto a tutto, anche all’Eurovision. Ho già contattato lo stylist di Achille Lauro, cambio look e cambio stile musicale… Scherzi a parte, questa è un’esperienza fondamentale. Per me, per la Calabria.
Proprio la Calabria è al tuo fianco in maniera compatta…
Sento questa presenza, il tifo di una regione non in senso campanilistico me per far vedere quanto questa terra vale. Sono fiero che mi ascoltino nella mia terra, così come sono felice di arrivare a Roma, a Milano…
La sua carriera musicale è iniziata quasi per caso. Come è stato il passaggio dalla vita di parcheggiatore a quella di cantautore?
«A trent’anni non avevo la minima idea di dove stessi andando. Mi ero laureato a Siena in Economia, producevo musiche per cartoni animati locali e, per mantenermi, facevo il parcheggiatore. Mi piaceva l’idea di passare le notti a contatto con un’umanità varia, quasi romantica. Vivevo ogni giornata rimandando l’appuntamento con la realtà, fino alla morte di mio padre, che ha rappresentato uno choc e un motore insieme. Mi ha costretto a pormi la domanda che evitavo: “Vuoi fare davvero il cantante?” La risposta è stata un “sì” immediato e da lì non ho più perso tempo.»
La scomparsa di suo padre ha segnato profondamente la sua vita e la sua musica. Che tipo di figura era per lei?
«Era un uomo forte, apparentemente immortale. Fumava come un pazzo, amava la tavola e non si risparmiava mai, nonostante i medici gli avessero imposto di rallentare. Per me era un mito incrollabile. Quando è morto, ho capito quanto fosse radicata in me l’illusione della sua invincibilità. È stata una perdita enorme, ma paradossalmente anche una scossa che mi ha portato nel mondo reale. Da quel momento, mi sono sentito obbligato a non rimandare più nulla. Mi ha dato la spinta per scrivere le mie prime canzoni e prendere in mano il mio futuro.»
La canzone “L’albero delle noci” racconta molto di lei. Parla di paternità e di Calabria. Cosa c’è di personale in questo brano?
«Mia figlia ha cambiato gerarchia delle mie cose, ti devi occupare e preoccupare del futuro di questa creatura. Mi ha fatto anche venire dubbi e rimpianti. C’è tutta la mia vita in Calabria, più che nei brani precedenti. Vivere nella natura mi ha aiutato a riscoprire un mondo che va oltre le dinamiche umane, a riconnettermi con me stesso. C’è più serenità, più accettazione rispetto al passato. È un brano pacificato, meno amaro. In fondo, è la mia personale pace fatta con il tempo e con certe cose che prima mi infastidivano. Non è rassegnazione, ma una consapevolezza diversa.»
Ha sempre voluto fare il musicista?
«Da ragazzino sognavo di diventare un chitarrista. Mia madre insegnava musica, quindi le note in casa non mancavano mai, ma nella Calabria degli anni ’80 pensare di fare il musicista era una follia. Internet non c’era, per trovare i dischi dovevo fare viaggi a Cosenza o a Paola. È stato complicato far accettare ai miei questa mia passione: la carriera musicale era sinonimo di precarietà, e loro, pragmatici, mi avevano convinto a un compromesso. “Ti laurei e poi vediamo.” Così ho fatto. Però, appena ho potuto, sono tornato alla musica.»
Quali sono stati i primi passi nel mondo della musica?
«Ho iniziato suonando in un gruppo decisamente alternativo e scrivendo melodie per cartoni animati delle TV locali. Poi, dopo la morte di mio padre, ho cominciato a scrivere le mie prime vere canzoni. Le notti erano il mio rifugio creativo: tornando dal lavoro, mi fermavo a ripercorrere il mio passato, sfogliavo vecchie foto, rievocavo ricordi sepolti. È stato un viaggio dentro me stesso, una personale ricerca del tempo perduto.»
Come mai ha deciso di tornare in Calabria dopo tanti anni fuori?
«Non è stata una scelta pianificata, ma alla fine mi sono reso conto che San Fili, con le sue tremila anime, è il posto perfetto per me. Mi dà la serenità giusta per concentrarmi. Qui mi annoio, e paradossalmente è una benedizione: la noia mi ha aiutato tantissimo a creare. In un grande centro urbano, mi sarei perso tra gli stimoli infiniti. Invece, qui c’è silenzio, la montagna alle spalle, un tempo diverso, più lento. È una dimensione che mi appartiene.»
Il rapporto con la montagna non è sempre stato sereno. Che ricordi ha di Aspromonte da bambino?
«Per me la montagna era sinonimo di paura: Aspromonte evocava immagini di sequestri di persona, catene, prigionie nei boschi. Da bambino ero molto pauroso e la montagna, nelle cronache nere dell’epoca, era un simbolo di terrore. Oggi la vedo in modo completamente diverso. È viva, quasi respira, ed è una presenza immutabile che mi dà una prospettiva più ampia sulla vita.»
La sua educazione è stata un mix tra Nord e Sud. Come ha influenzato il suo modo di essere?
«A casa mia non si parlava dialetto, solo italiano. Questo mi ha sempre posto in una posizione un po’ particolare: al paese, quando non usavo il dialetto, mi prendevano in giro dicendomi “Brunori, non fare il filosofo”. Era un modo per mettermi in guardia dal prendermi troppo sul serio, per restare con i piedi per terra. In famiglia c’era una mescolanza interessante: mio nonno era di Imola e si era trasferito in Calabria per lavoro alla fine degli anni ’50. La mia storia personale è un intreccio di Nord e Sud, pragmatismo e passione.»
La canzone popolare ha ancora un senso oggi?
«Secondo me sì. Mi piace l’idea di giocare nel campionato del pop, soprattutto oggi, in un momento in cui la frattura tra musica “intellettuale” e popolare è più marcata che mai. In L’albero delle Noci ho voluto riprendere la mia anima nazionalpopolare senza vergogna. Avere successo con una canzone che tocca tutti, dal critico musicale all’ascoltatore casuale, è ancora il massimo a cui posso ambire.»
La sua musica è spesso definita disincantata. Come vive questo aspetto?
«Il disincanto è un bivio: puoi trasformarlo in lamentela o in luce. Per me, il disincanto non è mai stato cinismo. Il cinico è solo un deluso che non accetta il crollo delle sue illusioni. Il disincanto, invece, può essere un punto di partenza per trovare una nuova bellezza. Quando scrivo una canzone, nasce sempre da un momento in cui qualcosa si spezza dentro di me. È una forma di testamento personale, un modo per rimettere insieme i pezzi.»