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Speciale Festival di Sanremo 2025

Willie Peyote: «Il mio Grazie ma no grazie? Un modo gentile per dire di no. Adoro Brunori, Corsi e Bresh»

Il rapper torinese torna a Sanremo con un brano ironico e tagliente, nato per caso durante un viaggio in Ecuador. Willie Peyote riflette su contraddizioni, cambiamenti e libertà di pensiero, tra riferimenti a Cyrano de Bergerac, ironia sull’Italia e una voglia di leggerezza che, dice, «in questo periodo storico ci serve più che mai».

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    Il rapper torinese torna a Sanremo con un brano diretto e tagliente, ma questa volta, racconta, lo spirito è più leggero e ironico rispetto al passato. Dopo il successo di Mai dire mai (la locura), Willie Peyote porta sul palco Grazie ma no grazie, un pezzo nato quasi per caso, dall’altra parte del mondo, in Ecuador. Un brano che riflette sull’Italia con un tono più spensierato, senza perdere però la vena critica che lo ha sempre contraddistinto.

    Sei già stato a Sanremo nel 2021 con Mai dire mai (la locura). Com’è tornare sul palco dell’Ariston?
    «La prima volta è stata un’esperienza un po’ naïf, non avevo compreso davvero quanto fosse grande Sanremo fino a quando non ci sono finito dentro. Questa volta mi sento più preparato e, soprattutto, più ben predisposto. Ho portato un brano più leggero, ma sempre con il mio solito stile ironico e tagliente.»

    Hai legato con qualcuno dei cantanti in gara?

    Tre nomi su tutti: Brunori, Bresh e Corsi. Mi sono piaciuti da matti. Con loro spero di collaborare in futuro. Ho amato le loro canzoni, i loro testi… Con Bresh abbiamo anche parlato di calcio dopo Toro-Genoa…

    Hai scritto Grazie ma no grazie mentre eri in Ecuador. Come nasce una canzone del genere così lontano dall’Italia?
    «Essere lontani aiuta a guardare il proprio paese con maggiore lucidità. In Ecuador ero andato a trovare mia sorella e il titolo mi girava in testa già da un po’. A un certo punto mi sono reso conto che aveva radici importanti: il monologo di Cyrano de Bergerac. Quando gli viene proposto di affiliarsi a qualcuno di potente per fare carriera, lui rifiuta ogni proposta con un netto “no grazie!”. Mi piaceva questa idea di libertà di pensiero.»

    Il pezzo ha un titolo gentile, ma dentro c’è parecchia critica sociale. Qual è il tema centrale?
    «In realtà il tema siamo noi, è l’Italia, presa però con uno spirito ironico. Penso che di ironia abbiamo parecchio bisogno in questo periodo. Certi discorsi vanno presi con le pinze, o rischiano di provocare risate grasse. Alla fine, il pezzo è un invito a riflettere e a farsi qualche domanda in più, anche quando non capiamo.»

    Citi persino i Jalisse nel testo. È una provocazione?
    «Diciamo che la barra sui Jalisse mi è uscita quasi per gioco. Quando l’ho scritta, ho pensato che sarebbe stato divertente portarla proprio a Sanremo. Poi le canzoni si scelgono da sole il percorso che fanno, e questa ha trovato il suo palcoscenico ideale.»

    Ironia, tradizione, inclusività: cosa racconta davvero Grazie ma no grazie?
    «Racconta un’Italia in cui ci sono tante contraddizioni, ma anche tanta voglia di cambiamento. Ci sono quelli che non sanno più come scrivere o parlare, quelli che si aggrappano alla tradizione per non confondersi. È una fotografia di un momento storico in cui ci stiamo ancora mettendo alla pari con tante tematiche globali. Bisognerebbe prendersi meno sul serio e fare una domanda in più quando qualcosa non ci torna.»

    Hai detto che non potresti mai scrivere una canzone pensando a Sanremo. Come scegli i tuoi pezzi?
    «Non potrei scrivere una canzone apposta per il Festival, perché verrebbe fuori qualcosa di finto. Però, a un certo punto, il pezzo sceglie da solo il suo destino. Grazie ma no grazie non era pensato per Sanremo, ma quando l’ho finito, ho capito che era perfetto per questo palco.»

    Nel testo parli anche di questioni linguistiche, come l’uso dell’asterisco nei plurali. È una critica?
    «Più che una critica, è una riflessione su come la lingua stia cambiando. Ci sono momenti in cui ci si sente un po’ disorientati, è vero, ma questo non significa che il cambiamento sia sbagliato. Bisogna solo imparare a convivere con il nuovo senza demonizzarlo, magari con un po’ più di leggerezza.»

    Come definiresti il tono di questa canzone rispetto a Mai dire mai (la locura)?
    «Mai dire mai era più cupa, più cinica. Grazie ma no grazie è allegra e spensierata, anche se il testo resta tagliente. È una canzone che mette in circolo cose buone, perché, in fondo, penso che l’universo prima o poi ti premi se lo fai.»

    La critica sociale resta però una tua cifra stilistica. Non temi che possa essere fraintesa?
    «Certo, il rischio c’è sempre. Ma se fai le cose con onestà, alla fine il pubblico lo capisce. A volte il cinismo può essere letto come pura lamentela, ma io cerco sempre di bilanciarlo con l’ironia. È un modo per osservare la realtà senza prendersi troppo sul serio.»

    Un desiderio per questa nuova esperienza a Sanremo?
    «Divertirmi e godermela. Ho imparato che certe cose bisogna prenderle come vengono. Se ti fai sequestrare dall’ansia di prestazione, finisci per perderti tutto. Invece, voglio uscire da questa esperienza con il sorriso, come una bella risata fatta bene.»

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      Speciale Festival di Sanremo 2025

      Duran Duran a Sanremo: “Amiamo suonare, amiamo questa vita e adoriamo i Maneskin!”

      I Wild Boys tornano a Sanremo più carichi che mai e si preparano a un’esibizione epocale. L’esibizione è dedicata al chitarrista Andy Taylor alle prese con un tumore al quarto stadio: “Lotta come un leone, ma non può essere qui”

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        I Duran Duran, band storica degli anni ottanta, torna in Italia. Durante la conferenza stampa al Festival di Sanremo 2025 hanno espresso grande entusiasmo per il loro ritorno sul palco dell’Ariston dopo 40 anni dalla loro esibizione dell’85. innamorati del nostro paese, hanno un’altra passione nascosta: «Sono un fan perso dei Maneskin e dovreste esserlo anche voi», ha detto Simon Le Bon,  «dovreste essre orgogliosi di avere un gruppo come quello, in Italia».

        E ancora: «È un onore essere qui dopo tanto tempo. L’Italia ha sempre avuto un posto speciale nei nostri cuori e Sanremo rappresenta un momento iconico nella nostra carriera». La band ha anche annunciato che, oltre all’esibizione a Sanremo, tornerà in Italia per una serie di concerti estivi. Si esibiranno al Circo Massimo di Roma il 15 e 16 giugno, alla Fiera del Levante di Bari il 18 giugno e agli I-DAYS Milano all’Ippodromo Snai San Siro il 20 giugno. Poi hanno condiviso la loro emozione per l’accoglienza ricevuta dal pubblico italiano nel corso degli anni e hanno sottolineato l’importanza di eventi come Sanremo nel promuovere la musica internazionale. Nick Rhodes ha aggiunto: «Il festival è una piattaforma straordinaria che unisce artisti di diverse generazioni e culture. Siamo entusiasti di farne parte ancora una volta». La loro partecipazione al Festival non solo celebra il passato, ma rafforza anche il legame continuo tra la band e i fan italiani, promettendo nuove emozioni sia sul palco dell’Ariston che nei prossimi concerti estivi. Si esibiranno giovedì 13 febbraio 2025, proponendo un medley dei loro più grandi successi e riceveranno un riconoscimento speciale per la loro carriera. Il ritorno dei Duran Duran a Sanremo rappresenta un momento significativo, che sottolinea l’influenza duratura della band sulla scena musicale internazionale e il loro apprezzamento per le nuove generazioni di artisti come i Måneskin.

        «Sanremo è interessante come negli anni Ottanta e questo non può che farci felici. Quanto a noi, quando lavoriamo insieme, siamo imbattibili. Noi ridiamo tantissimo. Quando c’è un momento di stress troviamo sempre un modo per divertirci e ci dividiamo i soldi in modo equanime. Oggi non c’è alcun gruppo che abbia avuto l’impatto che abbiamo avuto noi». E ancora: «Adesso il pubblico italiano è più incline ad ascoltare la musica che viene dall’America, per via dell’influenza che ha avuto l’hip hop, che ha cambiato anche ritmo e stile. Gli Stati Uniti  ci hanno inculcato i loro generi musicali e la loro musica. Noi in quell’epoca eravamo davvero unici e cool». Non ci resta che attendere le date italiane: «È la prima volta che facciamo un tour di questo genere siamo molto felici di cantare a Roma, di esibirci al Circo Massimo, una sede meravigliosa e poi a Milano. E abbiamo organizzato sorprese solo per voi».

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          Sardenaira, il gusto autentico di Sanremo: quando la tradizione incontra il sapore del mare

          La sardenaira è molto più di una semplice focaccia. È il simbolo gastronomico della città dei fiori, un piatto povero ma ricco di sapore, che racconta il legame profondo tra terra, mare e tradizione ligure.

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            A Sanremo, celebre per il Festival della Canzone Italiana, c’è un’altra regina che ogni giorno conquista palati e cuori: la sardenaira. Una focaccia rustica, profumata e irresistibile, che affonda le sue radici nella storia marinara della città, celebrando il connubio perfetto tra i sapori della terra e del mare.

            La sardenaira non è una pizza, e chiunque la confonda rischia di offendersi i sanremesi! Nata come piatto povero, era la soluzione ideale per sfamare pescatori e contadini, sfruttando ingredienti semplici e facilmente reperibili. Pomodoro, aglio, olive taggiasche, capperi e acciughe (o sarde, come suggerisce il nome) si uniscono alla base di pasta lievitata, creando una sinfonia di sapori dal gusto unico e deciso.

            Un po’ di storia

            Si racconta che la sardenaira esistesse già nel XVI secolo, quando la sua ricetta si limitava a pochi ingredienti e non prevedeva nemmeno il pomodoro, introdotto in Liguria solo più tardi. Il nome deriva proprio dall’abitudine di arricchirla con filetti di sarda salata, pescata in abbondanza lungo le coste liguri.


            Con il tempo, la sardenaira si è evoluta, trasformandosi in una delle pietanze più amate dai sanremesi e dai turisti che visitano la città. Nonostante le varianti, la ricetta originale è rimasta un baluardo della tradizione locale, tanto da essere riconosciuta come prodotto tipico della Riviera di Ponente.

            Come si prepara?

            La sardenaira richiede una preparazione paziente. La base è una pasta lievitata soffice, più spessa rispetto alla classica focaccia genovese, ma meno croccante di una pizza. Il segreto del suo sapore sta nel condimento: una salsa di pomodoro ben cotta e insaporita con aglio, acciughe, capperi e olive taggiasche. Il tutto viene completato con abbondante olio extravergine d’oliva e, talvolta, un pizzico di origano.

            Si cuoce in forno fino a ottenere una focaccia morbida e profumata, da gustare calda o a temperatura ambiente. Perfetta come spuntino, aperitivo o piatto unico, la sardenaira rappresenta l’essenza della cucina ligure: semplice, saporita e legata al territorio.

            Dove assaggiarla a Sanremo?

            Ogni panificio e trattoria della città ha la propria versione di sardenaira, ma i veri intenditori sanno che i luoghi migliori per provarla si trovano nel centro storico, tra i vicoli della Pigna e i locali affacciati su Piazza Bresca.

            Che tu la gusti passeggiando per le strade di Sanremo o seduto a un tavolino sul porto, una cosa è certa: la sardenaira è un’esperienza che ti porta dritto al cuore della Riviera di Ponente.

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              Brunori, applausi e ironia a Sanremo: «Per chi ha fatto la gavetta nelle piazzette, Sanremo è uno scherzo»

              Dopo sedici anni di carriera, Brunori Sas debutta al Festival con L’albero delle noci. In sala stampa l’atmosfera è calorosa, tra flash e applausi. «Sanremo è un’esperienza fondamentale, anche per la mia terra. Sono fiero di portare qui una parte di me e di rappresentare il cantautorato. Certo, potrei anche andare all’Eurovision… con lo stylist di Achille Lauro!»

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                Brunori è attesissimo in sala stampa. Tutti i giornalisti italiani lo stanno aspettando e quando arriva si scatena un applauso liberatorio. Lui gigioneggia sotto i flash dei fotografi, si vede che non è abituato a tutto questo clamore. Fa una mossa, una posa, poi scherza. Ride. Si schermisce. Poi si siede al posto d’onore.

                Prima a Sanremo, com’è andata?

                «Sono molto felice di essere arrivato qui dopo sedici anni di carriera, perché credo sia giusto avere una possibilità diversa: è bello che Sanremo abbia più voci, più stili, più linguaggi musicali. È una cosa molto forte, anche il corpo ne risente e reagisce. Da domenica siamo stati qui in attesa di esibirci, ora c’è lo scarico naturale della tensione. Ho vissuto l’esperienza come se fossi in teatro, mi sono sentito a mio agio sul palco: è stato molto bello. Per uno come me che ha fatto la gavetta nelle piazzette dei piccoli paesi, dove la gente si porta la sedia e ti maledice se non fai uno spettacolo che gli piace, Sanremo è uno scherzo» 

                Si parla tanto del cantautorato e quando si nomina questo termine si parla di te e di Lucio Corsi…

                Sono contento di rappresentare i cantautori, ce ne sono tantissimi molto validi. Sono contento che questa categoria della canzone sia rappresentata. Il fatto che mi vedano e dicano ‘ma allora esiste anche quella musica lì’, mi riempie d’orgoglio. Anche perché quando parlo ai miei nipoti non è che sappiano tanto chi è De André. Ma io sono pronto a tutto, anche all’Eurovision. Ho già contattato lo stylist di Achille Lauro, cambio look e cambio stile musicale… Scherzi a parte, questa è un’esperienza fondamentale. Per me, per la Calabria.

                Proprio la Calabria è al tuo fianco in maniera compatta…

                Sento questa presenza, il tifo di una regione non in senso campanilistico me per far vedere quanto questa terra vale. Sono fiero che mi ascoltino nella mia terra, così come sono felice di arrivare a Roma, a Milano…

                La sua carriera musicale è iniziata quasi per caso. Come è stato il passaggio dalla vita di parcheggiatore a quella di cantautore?
                «A trent’anni non avevo la minima idea di dove stessi andando. Mi ero laureato a Siena in Economia, producevo musiche per cartoni animati locali e, per mantenermi, facevo il parcheggiatore. Mi piaceva l’idea di passare le notti a contatto con un’umanità varia, quasi romantica. Vivevo ogni giornata rimandando l’appuntamento con la realtà, fino alla morte di mio padre, che ha rappresentato uno choc e un motore insieme. Mi ha costretto a pormi la domanda che evitavo: “Vuoi fare davvero il cantante?” La risposta è stata un “sì” immediato e da lì non ho più perso tempo.»

                La scomparsa di suo padre ha segnato profondamente la sua vita e la sua musica. Che tipo di figura era per lei?
                «Era un uomo forte, apparentemente immortale. Fumava come un pazzo, amava la tavola e non si risparmiava mai, nonostante i medici gli avessero imposto di rallentare. Per me era un mito incrollabile. Quando è morto, ho capito quanto fosse radicata in me l’illusione della sua invincibilità. È stata una perdita enorme, ma paradossalmente anche una scossa che mi ha portato nel mondo reale. Da quel momento, mi sono sentito obbligato a non rimandare più nulla. Mi ha dato la spinta per scrivere le mie prime canzoni e prendere in mano il mio futuro.»

                La canzone “L’albero delle noci” racconta molto di lei. Parla di paternità e di Calabria. Cosa c’è di personale in questo brano?
                «Mia figlia ha cambiato gerarchia delle mie cose, ti devi occupare e preoccupare del futuro di questa creatura. Mi ha fatto anche venire dubbi e rimpianti. C’è tutta la mia vita in Calabria, più che nei brani precedenti. Vivere nella natura mi ha aiutato a riscoprire un mondo che va oltre le dinamiche umane, a riconnettermi con me stesso. C’è più serenità, più accettazione rispetto al passato. È un brano pacificato, meno amaro. In fondo, è la mia personale pace fatta con il tempo e con certe cose che prima mi infastidivano. Non è rassegnazione, ma una consapevolezza diversa.»

                Ha sempre voluto fare il musicista?
                «Da ragazzino sognavo di diventare un chitarrista. Mia madre insegnava musica, quindi le note in casa non mancavano mai, ma nella Calabria degli anni ’80 pensare di fare il musicista era una follia. Internet non c’era, per trovare i dischi dovevo fare viaggi a Cosenza o a Paola. È stato complicato far accettare ai miei questa mia passione: la carriera musicale era sinonimo di precarietà, e loro, pragmatici, mi avevano convinto a un compromesso. “Ti laurei e poi vediamo.” Così ho fatto. Però, appena ho potuto, sono tornato alla musica.»

                Quali sono stati i primi passi nel mondo della musica?
                «Ho iniziato suonando in un gruppo decisamente alternativo e scrivendo melodie per cartoni animati delle TV locali. Poi, dopo la morte di mio padre, ho cominciato a scrivere le mie prime vere canzoni. Le notti erano il mio rifugio creativo: tornando dal lavoro, mi fermavo a ripercorrere il mio passato, sfogliavo vecchie foto, rievocavo ricordi sepolti. È stato un viaggio dentro me stesso, una personale ricerca del tempo perduto.»

                Come mai ha deciso di tornare in Calabria dopo tanti anni fuori?
                «Non è stata una scelta pianificata, ma alla fine mi sono reso conto che San Fili, con le sue tremila anime, è il posto perfetto per me. Mi dà la serenità giusta per concentrarmi. Qui mi annoio, e paradossalmente è una benedizione: la noia mi ha aiutato tantissimo a creare. In un grande centro urbano, mi sarei perso tra gli stimoli infiniti. Invece, qui c’è silenzio, la montagna alle spalle, un tempo diverso, più lento. È una dimensione che mi appartiene.»

                Il rapporto con la montagna non è sempre stato sereno. Che ricordi ha di Aspromonte da bambino?
                «Per me la montagna era sinonimo di paura: Aspromonte evocava immagini di sequestri di persona, catene, prigionie nei boschi. Da bambino ero molto pauroso e la montagna, nelle cronache nere dell’epoca, era un simbolo di terrore. Oggi la vedo in modo completamente diverso. È viva, quasi respira, ed è una presenza immutabile che mi dà una prospettiva più ampia sulla vita.»

                La sua educazione è stata un mix tra Nord e Sud. Come ha influenzato il suo modo di essere?
                «A casa mia non si parlava dialetto, solo italiano. Questo mi ha sempre posto in una posizione un po’ particolare: al paese, quando non usavo il dialetto, mi prendevano in giro dicendomi “Brunori, non fare il filosofo”. Era un modo per mettermi in guardia dal prendermi troppo sul serio, per restare con i piedi per terra. In famiglia c’era una mescolanza interessante: mio nonno era di Imola e si era trasferito in Calabria per lavoro alla fine degli anni ’50. La mia storia personale è un intreccio di Nord e Sud, pragmatismo e passione.»

                La canzone popolare ha ancora un senso oggi?
                «Secondo me sì. Mi piace l’idea di giocare nel campionato del pop, soprattutto oggi, in un momento in cui la frattura tra musica “intellettuale” e popolare è più marcata che mai. In L’albero delle Noci ho voluto riprendere la mia anima nazionalpopolare senza vergogna. Avere successo con una canzone che tocca tutti, dal critico musicale all’ascoltatore casuale, è ancora il massimo a cui posso ambire.»

                La sua musica è spesso definita disincantata. Come vive questo aspetto?
                «Il disincanto è un bivio: puoi trasformarlo in lamentela o in luce. Per me, il disincanto non è mai stato cinismo. Il cinico è solo un deluso che non accetta il crollo delle sue illusioni. Il disincanto, invece, può essere un punto di partenza per trovare una nuova bellezza. Quando scrivo una canzone, nasce sempre da un momento in cui qualcosa si spezza dentro di me. È una forma di testamento personale, un modo per rimettere insieme i pezzi.»

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